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giovedì 21 novembre 2013

Il fascino dantesco di Vulcano


L'isola di Vulcano

Siamo ancora una volta alle isole Eolie.
Vulcano è l'isola più vicina alle coste siciliane e la prima che incontrerete durante la navigazione, partendo da Milazzo. Naturalmente si può raggiungere anche dalle altre isole Eolie, così come ho fatto io.
Secondo la mitologia greca, proprio a Vulcano si trovavano le Fucine di Efesto, il dio del fuoco, chiamato dai romani Vulcano, da cui l'isola prende appunto il nome.
Uno dei vulcani da cui è formata l'isola è ancora attivo, e la sua presenza è evidentissima in tutto il territorio.

Varietà rocciosa lungo un tratto di costa
Un'esperienza che mi sento di consigliarvi è quella di affidarvi a un locale che vi porti in barca a compiere il periplo dell'isola. 
Dal mare potrete infatti apprezzare  l'interessante composizione geologica di Vulcano. 
Le rocce, spesso a picco sul mare, hanno dei colori che vanno dal rosa, al rosso, al giallo al nero e al verde, a seconda degli elementi di cui sono composte. Un paradiso per i geologi! Ma anche per gli occhi di qualunque visitatore.
Osserverete valli selvagge e isolate, immerse nel più assoluto silenzio.
Farete quasi sicuramente sosta a Cala Gelso, vicino al faro, in una spiaggia dalle sabbie nere, dove vi sentirete piacevolmente immersi in un bel clima vacanziero e isolati dal mondo al tempo stesso.
 
Acque cristalline di Vulcano
Inoltre potrete fare il bagno in punti altrimenti non accessibili. In alcuni tratti della costa, l'acqua è davvero invitante: limpida  e di uno splendido colore turchese.
Il fondale è ricco di fauna e flora marina, purtroppo non mancano le meduse, ma con un po' d'attenzione riuscirete a schivarle e a godervi un meraviglioso bagno.




Grotta
Anche la presenza delle grotte marine non è da sottovalutare. In alcune, conosciute solo dai pescatori del luogo, è addirittura possibile addentrarsi e, dopo aver nuotato nel buio più totale, farsi guidare da un puntino di luce che ne indica l'uscita dal versante opposto della montagna. Naturalmente non dovete mai avventurarvi da soli alla ricerca di queste grotte: è molto pericoloso senza una guida preparata!


A questo punto avrete sicuramente intuito la bellezza di Vulcano, forse starete addirittura pensando di includerla tra le mete preferite per le vostre prossime vacanze, ma ancora non siamo arrivati al cuore di questo post. 
L'anima di Vulcano è stata ancora solamente accennata.
Chi attracca direttamente sull'isola, senza compiere il periplo, al Porto Levante, se la trova subito davanti. Per questo "vi ho fatto fare il giro in barca": per prepararvi a poco a poco, anticipandovi la natura vulcanica del luogo. Perché, una volta attraccati, quello che vi troverete davanti sarà impressionante. 
A destra avrete Vulcanello, una penisola che prende il nome da un vulcano ormai spento, ora ricoperto da vegetazione e composto da rocce laviche, collegato da un istmo all'isola. A sinistra il vulcano vero e proprio, quello ancora in attività, verdeggiante e fumoso. Davanti a voi grosse rocce di zolfo dalle strane forme.
E proprio l'odore di zolfo vi darà il il benvenuto sull'isola.

Laghetto dei fanghi caldi




Fatti quattro passi, vedrete subito i famosi e suggestivi laghetti con i fanghi sulfurei di Vulcano. Questo è un luogo affascinante e infernale al tempo stesso: ci sono rocce rosa, nere e gialle; fumarole calde che escono dalla terra; odore pungente di zolfo; acque che ribollono; fanghi composti da così tanti elementi da possedere una straordinaria varietà cromatica. C'è una scultura in pietra lavica, circondata da zolle di zolfo, che raffigura un uomo curvo, dall'espressione sofferente. E, infine, c'è la gente che si immerge in queste acque.

Scultura in pietra lavica
Fanghi










Sembra di essere in un girone dantesco. L'atmosfera è irreale. Il paesaggio alieno. Si ha la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di inquietantemente rituale, eppure affascinante.
In realtà i fanghi sono terapeutici, noti per la cura di reumatismi, artrosi e malattie della pelle.
E credo che sia proprio qui, il senso profondo dell'isola.
Lo zolfo, le fumarole, l'acqua che ribolle: siamo di fronte alle più antiche manifestazioni della Terra, in pieno contatto con un vulcano attivo, con le viscere della terra. Proviamo timore, come se ci trovassimo di fronte a qualcosa di sacro, e  proviamo attrazione ancestrale.
E da tutti questi fenomeni, con cui l'isola manifesta la sua anima vulcanica, traiamo benefici.
Le persone si avviano al laghetto, verso quelle acque dall'odore tanto sgradevole, e appaiono come i dannati di Dante, in mezzo a fanghi dai colori infernali. 
Invece vengono purificati dal contatto con gli elementi primordiali della terra. 
Questo arido inferno di zolfo e calore, medica i loro malanni. Si trasforma in paradiso.
L'anima di Vulcano, è il vulcano stesso. E tutte le sue incredibili manifestazioni, generosamente sotto i nostri occhi. Accessibili. Curative. Spaventose e benefiche al tempo stesso.

Se volete continuare la visita dell'isola, accanto ai laghetti si trova la lunga spiaggia dalle sabbie nere, dove sono presenti fumarole sottomarine calde. Per questo motivo occorre entrare in acqua con le scarpine e usare molta cautela. 
Il paese è poco lontano da qui ed è un piccolo villaggio dall'atmosfera giovanile e bohémien, dove potrete passeggiare piacevolmente curiosando nei negozietti.
Però ricordate: il souvenir più duraturo sarà l'odore di zolfo! Dopo esservi immersi in queste acque, potete dire addio al vostro costume: per quanto lo possiate lavare, l'odore non andrà più via. 
Coraggio: in fondo è l'odore dell'isola che avete amato.
L'odore della sua anima vulcanica.


mercoledì 20 novembre 2013

Pomice e ossidiana: benvenuti a Lipari!


Panorama da Pianoconte

Lipari è l'isola dei contrasti. 
Tra il paese e la zona di Canneto, molto turistiche, e le frazioni solitarie: Acquacalda, Quattropani, Pianoconte.
Tra panorami naturali incontaminati e paesaggi decisamente industriali.
Tra  la vita antica dei pescatori e quella moderna dell'industria e del turismo.
Ma soprattutto, tra la pomice e l'ossidiana. 
Il bianco e il nero. Il leggero e il pesante. Il levigato e il tagliente.
Lipari è proprio così: queste due rocce rappresentano le facce della sua duplice anima.
Una chiara ma delicata, l'altra scura ma affascinante. 
Entrambe provenienti dalla stessa origine, spesso coesistenti negli stessi luoghi.

Cava di pomice
In questo senso, la più particolare spiaggia dell'isola è quella di Porticello. 
Si trova esattamente sotto la vecchia cava di pomice, oggi non più in uso, del Monte Pilato. 
Diversi pontili e i resti delle industrie di estrazione, qui coabitano con un bel mare azzurro e soprattuto con l'impressionante pendio di pomice bianca, formato negli anni dagli scarti delle lavorazioni della cava, che oggi arriva proprio a ridosso della spiaggia.
Devo dire la verità: la spiaggia è piccola ed è un po' strano questo paesaggio metà naturale metà industriale. 

La spiaggia di Porticello
Tuttavia, la presenza della pomice offre uno scenario decisamente caratteristico. 
E' irresistibile la tentazione di arrampicarsi sul pendio e lasciarsi scivolare, oppure camminare a piedi nudi su questo soffice tappeto.
La spiaggia, invece, è cosparsa da pezzettini di ossidiana (sia tagliente sia in ciottoli più levigati). Non a caso, la principale colata d'ossidiana di Lipari si trova esattamente dopo la cava di pomice. Nero e bianco. Diversi. Vicini. Complementari.
Un tempo, quando la cava era in attività, la polvere di pomice era talmente tanta che arrivava in molti altri punti dell'isola. C'era una lunga spiaggia chiamata "Spiaggia Bianca" (oggi Ex Spiagge Bianche) proprio per la presenza della pomice, che ne ricopriva tutta la superficie. Era depositata anche sul fondo marino, rendendo il luogo molto suggestivo: una "sabbia" di pomice bianca e finissina, e un'acqua ancora più azzurra dal contrasto con il fondale bianchissimo.
Oggi non è più così, la cava è stata chiusa nel 2005 per motivi ambientali, e la pomice è stata man mano portata via dal mare e dal vento. 
Ne resta testimonianza solo nelle cartoline. E nella spiaggia di Porticello, ovviamente.

Ossidiana
In compenso si possono visitare le zone della cava abbandonata che costeggiano la strada principale. Sarà una passeggiata su polvere e ciottoli bianchi, intervallati da scaglie (più o meno grandi) di ossidiana, in uno strano paesaggio lunare, dove regna un silenzio irreale e il senso di estraniazione è pressoché totale.
 



Valle Muria
Ma Lipari non ha ancora finito di stupirci, e di lasciarci a volte anche un po' interdetti. Come si addice, appunto, all'isola dei contrasti.
Purtroppo, a meno di non avere una barca a disposizione, non potrete accedere ai punti di mare più belli. Le spiagge migliori non sono raggiungibili a piedi.
Ma se volete arricchire la conoscenza geologica dell'isola, coraggio: bisogna percorrere il sentiero per Valle Muria, la spiaggia più selvaggia e meno frequentata (tra quelle accessibili) di Lipari. Il sentiero è stancate, ma fattibile. E, quando arriverete alla spiaggia, rimarrete sbalorditi dai blocchi di pietra che la formano, dalle pareti gialle di zolfo e dalle rocce vulcaniche rosse e rosa.
Suggestivo è il giusto aggettivo per descrivere il tripudio di colori di questo luogo.
Ma state molto attenti, perché se capitate qui in un pomeriggio estivo, sappiate che non avete scampo: non c'è alcuna possibilità di ripararsi dal sole cocente, non c'è ombra da nessuna parte e il calore delle rocce è impressionante.


Panorama dal Belvedere Quattrocchi
Vi lascio con uno dei più bei panorami dell'isola: quello che si gode dal Belvedere Quattrocchi. 
Indiscutibile.
L'isola appare blu, profonda, stagliata sul mare.
Ma dopo il tramonto, mano mano che la luce cala, diventa una sagoma nel cielo.
E mette a tacere i contrasti di Lipari.
Rasserena, finalmente, la sua anima inquieta.













giovedì 14 novembre 2013

La potenza di Stromboli


Sarò sincera: a Stromboli ho trascorso solo mezza giornata.
Ma sarò altrettanto sincera nel dirvi che basta mezz'ora sull'isola, per avere percezione della potenza della sua anima. Sì: Stromboli è potente, non mi viene in mente un altro aggettivo che meglio possa descrivere la più lontana delle Isole Eolie dalla Sicilia, ma la più nota in tutto il Mondo.
E ama i colori forti: il rosso del fuoco e il nero della lava.
Saprete sicuramente che lo Stromboli è un vulcano attivo e, quindi, è un cosiddetto "vulcano buono", perché sfogandosi quotidianamente non dovrebbe arrivare a esplosioni devastanti (seppure a volte dei problemi ci sono stati).
Quello che forse non conoscete, è il rispetto che suscita questo vulcano nei visitatori e nei locali: è "Iddu" (Lui) che decide le sorti dell'isola, nel bene e nel male. Gli strombolani sono tanto consapevoli della sua presenza, da personificarlo e parlarne in termini umani: "Iddu parla" sono soliti dire, infatti, quando i boati delle eruzioni si diffondono su tutta l'isola.
Qui non è l'uomo a comandare sulla natura, ma è la natura a farla da padrone e l'uomo non può far altro che offrirle un profondo rispetto e una fiducia incondizionata, simile a quella che si ripone nella religione. 

Stromboli, vista da Strombolicchio




Dal mare l'isola si presenta come un unico cono vulcanico, nero, materico, solcato dal vento, avvolto dalle nubi di fumo sulla sua cima, accanto al cratere. Poi, man mano che la barca si avvicina, si notano le casette e la chiesa, timidamente adagiate sulla montagna. 
Si attracca accanto alla lunga spiaggia di sabbia lavica, nerissima, e il cuore batte forte, semplicemente per l'essere a Stromboli. Poi ci si inizia a guardare intorno e si notano i primi segni della presenza del vulcano: ovunque ci sono cartelli che indicano le vie di fuga in caso di eruzione, terremoto o maremoto. E si ha timore, eppure attrazione incontrollabile, atavica, verso il fuoco, la lava, la fine e l'inizio di ogni cosa.
Il paese è sopra il livello del mare, per raggiungerlo ci sono le viuzze, tutte in salita, che partono dalla spiaggia e arrivano al cuore del paese, nella piazza di San Vincenzo, centro della vita sociale e culturale dell'isola. Quello che colpisce è che in un'isola così piccola ci sia tanto fermento culturale e tanta arte: la libreria, il centro culturale e vari negozi di ammirabile artigianato, abitano le viuzze intorno la piazza.
E la sera si organizza sempre qualcosa: che siano proiezioni di film (immancabile "Stromboli - Terra di Dio"), l'ammaliante "festa del fuoco" o una scalata organizzata al vulcano, gli strombolani amano riunirsi e celebrare la notte. Una notte che fino a qualche anno fa era piena di stelle, perché a Stromboli mancava l'elettricità e, di sera, si camminava per le strade buie, guidati solo dalla luce di una candela, della luna, o dall'istinto. Una notte che anche illuminata, ha conservato il fascino millenario, profumata com'è di fiori, di lava e di silenzio.
E la cosa più bella, quando cala la notte, è farsi portare da una barca davanti la "Sciara del fuoco", un pendio nella parte dell'isola opposta al centro abitato, dove cola la lava e rotolano le rocce incandescenti, finendo nel mare dopo uno scivolo di settecento metri. 
Di notte si spia il vulcano, sperando di non essere visti. 
Le barche spengono il motore, e resti così: in mezzo al mare, nel silenzio più assoluto, nel buio, ad aspettare il rombo che precede gli zampilli di lava e roccia incandescente. Il vento coccola il tuo volto, la luna è alta nel cielo e delinea la sagoma del vulcano, una volta abituati gli occhi. Sul costone dello Stromboli compaiono piccole luci in fila indiana: sono le torce di quelli che tentano la scalata al cratere.
L'odore del mare è avvolgente. Poi il rumore rompe il silenzio e la quiete perfetta dell'attimo prima, e il fuoco rosso squarcia il nero della notte. Uno spettacolo dove la vita e la morte sono fuse in un'unica cosa.

Stromboli è un'isola dura, misteriosa, lontana. E' un paradiso che può nascondere l'inferno. E' un luogo "vivo", dove la natura incute pace e timore al tempo stesso, dove la solitudine può essere profonda, ma i legami sono intensi e duraturi.


 Scultura in pietra a Stromboli

Chi conosce l'isola molto meglio di me, è sicuramente Lidia Ravera, che vi soggiorna spesso e anche per lunghi periodi. Il suo libro "A Stromboli" (Editori Laterza, 2010) è un piccolo capolavoro che mette a nudo l'anima dell'isola e l'amore viscerale della scrittrice per questa terra.
E sono sicura che le sue parole sono la migliore conclusione di questo post.

Così la Ravera descrive la sua prima volta a Stromboli: 
"Sono rimasta sedotta dal luogo al primo impatto. Me ne sono accorta nel solo modo che conosco, e che so riconoscere: un allertarsi ansioso di tutti i sensi. Udito, odorato, sguardo, tatto, gusto. Mi è successo altre volte. Non molte" (pagina 54)
Stromboli, panorama
 
 E ancora:  

"Mi è sembrata un'eccellente idea fermarmi sotto il vulcano. 
Al culmine della mia carriera di irrequieta. 
Dato che nulla è permanente, nemmeno una casa, nemmeno le cose, nemmeno la vita umana. 
Mi esercito alla provvisorietà. Cerco un senso di impermanenza" (pagina 23).

In ultimo, la sua indimenticabile descrizione della notte passata sul vulcano, accanto al cratere:
"Sedevo, quindi, con venti ragazzi francesi e olandesi e svizzeri, sul bordo che sovrasta il cratere. Li ascoltavo ridere e parlare, eppure mi sentivo, riuscivo a sentirmi, perfettamente sola, sentivo la perfezione della solitudine. Guardavo meravigliata quel lago di fuoco, quella tazza accesa e fumigante, aspiravo l'odore acre e definitivo dello zolfo. Guardavo le stelle oscurate dalla bandana di vapore che sventola fra la cresta della montagna incendiata e il cielo. Ascoltavo i colpi secchi delle esplosioni non visibili e l'eco che li seguiva, prima che la fucina del fuoco lanciasse i suoi razzi fuori, a spegnersi nel vento" (pagina 25).




martedì 12 novembre 2013

Salina in letteratura


Amo Salina, penso si sia capito dai post che le ho dedicato. E a Salina ho ambientato anche un capitolo del mio libro "Il tempo della casa del pino". Sebbene alcuni elementi siano piegati alle esigenze narrative, le atmosfere a cui rimando sono esattamente quelle dell'isola. Per chi avesse voglia di leggerlo, riporto qui l'intero capitolo:


Non si è più fatto vedere in paese: deve aver saputo del mio ritorno.
Così ho preso il primo aliscafo della giornata. È abbastanza spazioso o forse è solo abbastanza vuoto a quest’ora della mattina. C’è una signora, con una cesta di vimini in braccio, che non presta attenzione al paesaggio; evidentemente è abituata alla tratta, forse ha dei parenti sull’isola a cui porta qualcosa che lì manca e in cambio le riempiono il paniere con le prelibatezze locali. C’è una compagnia di turisti nordici che probabilmente farà il giro di tutte le Eolie: sono impegnati a guardare le mappe delle isole e a scattare fotografie, commentandole tra loro.
Ci sono alcuni uomini dell’equipaggio che lavorano sull’aliscafo.
E ci sono io.
Un uomo mi guarda e mi mette in imbarazzo, volto lo sguardo e fingo di essere concentrata sulle onde del mare. Evidentemente capisce, perché smette di fissarmi e si allontana.
La destinazione è Salina. Una pazzia.
L’isola la conosco. Ci sono già stata, con lui, tanti anni fa.
E non ho mai dimenticato Lingua: sottile striscia di terra all’estremità sud dell’isola. Salina è formata da due vulcani che ne occupano tutta la superficie e rendono il territorio estremamente impervio. La strada è tutta curve e tornanti che si arrampicano intorno ai due coni vulcanici. Poi, improvvisa, appare questa lingua di terra piana e riposante, ai piedi del monte Porri. È una terra che sembra mandata da Dio dopo la fatica di tanta montagna. Un miraggio camminare in piano e finalmente senza fatica su quell’ultima striscia di terra dell’isola. Piccola, preziosissima, pianura di Salina. Ristoratrice e benevola.
Qui sorge la contrada di Lingua – appunto – con le case, che si possono contare sulla punta delle dita, delle persone che vivono a ridosso del vulcano.
Amo questo posto ed è qui che sto cercando Salvo.

Sono sbarcata a Santa Marina di Salina e ho chiesto di lui. Ho preso un caffè al bar, tra pochi turisti e molti uomini isolani. Non è stato difficile avere notizie: è uno dei pochi pescatori. Sembra un paradosso, ma in un’isola in mezzo al mare, dove il pesce non mancherebbe, gli uomini non si dedicano alla pesca. C’è solo una pescheria e qualche pescatore che la rifornisce e vende anche ai turisti al porto, la mattina. Uno di questi è Salvo. Gli altri sono agricoltori, pastori e, soprattutto, produttori agricoli di Malvasia e capperi. L’odore dell’isola è il loro.
Ho domandato al barista, a bassa voce, se conoscesse Salvo Guarniero, e lui, ad alta voce, mi ha chiesto: «Chi? ‘U piscaturi o ‘u fìgghiu di Daniele?».
«Il pescatore.»
E le voci sovrapposte degli uomini del bar mi hanno informato: «A Lingua sta». Qualcuno ha aggiunto: «Picchì ‘u cerca?». 
Che sono sua cugina, questo ho detto; la cugina di Roma in vacanza a Salina e che lo volevo salutare. La scusa più banale e antica del mondo. Non ci ha creduto nessuno e mi è parso di sentire le loro voci, un po’ compiaciute, arrivare dritte a Salvo: «Ti facisti l’amante? Salvuzzo... ti cerca tua “cugina” romana».

Non me la sento di andare direttamente a Lingua, sono venuta fin qui quasi senza pensare e ora farei di tutto per rimandare l’incontro con Salvo. Affitto un motorino al porto, da un signore con i baffi che mi fa lo sconto perché lo prendo solo per qualche ora. È abituato ai turisti, pochi a dire la verità, che però lo affittano per tutto il tempo del loro soggiorno a Salina, dopo essersi resi conto che andare a piedi è praticamente impossibile, e il servizio di bus che collega alle spiagge è molto lento a causa dei tornanti che si inerpicano sulla montagna e costringono a continue frenate. Il motorino è il mezzo più idoneo per muoversi, sebbene anche con questo occorra stare attenti alle curve e non esagerare in velocità. È un’isola difficile. È selvaggia, verdissima e affascinante, ma dura come le sue rocce vulcaniche affilate.
È l’isola per Salvo.

Allo strapiombo di Pollara il vento e il senso di libertà mi invadono. È un panorama come pochi ce ne sono al mondo. La montagna verde, fiera, protegge la valle circondata dalle scogliere.
Non posso fare a meno di immaginare Salvo qui, nei tramonti di questi anni, solo e accovacciato tra i resti delle case scavate nella roccia dai pescatori. Non si può andare da nessun’altra parte poi: l’isola finisce a strapiombo sul mare. Eppure tutto quello di cui si ha bisogno pare essere qui.
Scendo alla scogliera.
Immagino Salvo disteso su questa pietra, con lo sguardo scontroso a sfidare il cielo, masticando un filo d’erba.
Salvo a maledire la vita e benedire il mare.
Piango.
Le lacrime vengono portate via dal vento, libere anch’esse, finalmente.
Come ho potuto? Lasciare Salvo. Dimenticare tutto. Sposare Fabio. Diventare una donna fredda e formale. Come?
Due signore messinesi mi chiedono un’informazione turistica sull’isola, prima di rendersi conto, imbarazzate, delle mie lacrime. Le invento completamente, racconto che il santuario al centro dell’isola era un carcere.
Forse è esattamente ciò che sono stata anch’io.
Poi mi decido, recupero il motorino che ho lasciato lungo la strada principale, all’imbocco del sentiero di pietra che porta alla scogliera.

Quando arrivo a Lingua, la luce è quella calda della fine di una lunga giornata d’estate. Una luce ancora forte ma già aranciata e morbida, disegna meglio il contorno delle cose e preannuncia il tramonto.
Questa luce è un incanto sul piccolo villaggio abitato, accarezza la montagna verdissima alle spalle e la fa sembrare più amica e vicina. Accentua il rosso, il nero e l’arancio delle pietre laviche arrotondate dal mare che formano la spiaggia, colora i riflessi del piccolo lago usato per estrarre il sale, evidenzia il rosa del faro guardiano dell’isola.
Alcune barche dei pescatori: rosse, blu e gialle, sono abbandonate sulla baia, tra le miriadi di ciottoli lavici. Dei bambini del luogo, a torso nudo abbronzato dal sole, completamente scalzi, spettinati e con le braccia graffiate da giochi spericolati, stanno inscenando un combattimento salendo e scendendo dalla più grande di queste barche. Il più scatenato è biondo, ha i capelli lisci e lunghi che gli coprono il viso, e li scansa con un gesto veloce del braccio, mentre corre senza fermarsi per vincere la sua battaglia.
Mi viene da pensare che assomigli a Salvo da piccolo, anche se il bambino è biondo e lui scuro. È l’essere selvaggio, l’essere parte di questo paesaggio, che mi suggerisce il paragone. Per un momento penso che possa essere veramente suo figlio, ma è impossibile. Questo bambino avrà dieci anni, è troppo grande per essere il figlio di Salvo. Solo se fosse nostro potrebbe avere quest’età, se dieci anni fa...
La ragazza del bar - ristorante, l’unico esistente a Lingua, si sbraccia dal muretto che separa la strada cementata dalle pietre della spiaggia, e chiama ad alta voce il bambino, gesticolando per essere certa di essere vista: «Albertoooo».
Poi lo chiama più forte perché lui fa finta di non averla sentita. È preso dalla foga del gioco e non gli interessa che il sole stia calando, che la luce si sia fatta più rossa e radente, e sia ora di rientrare a casa.
La ragazza è bella: ha gli occhi chiari e i capelli lunghi, castani e lucenti; è un po’ in carne ma non certamente grassa, semmai robusta e sana. Indossa il grembiule con l’insegna del bar. Dev’essere la proprietaria e il bambino suo figlio o, forse, suo fratello.
Incrocia le braccia e sbuffa. La scena, con ogni probabilità, si ripeterà molto frequentemente: i bambini sono abituati a essere indipendenti, giocano fuori tutti insieme mentre la famiglia lavora, e la sera è difficile richiamarli all’ordine, convincerli a rientrare e che la battaglia che stanno conducendo sia solo un gioco, che non sia reale e, quindi, possa essere interrotta.
«Albertoooo» continua a gridare la ragazza. «Daiii, è oraaa.»
Alberto questa volta alza il braccio, le fa segno di sì, che ha capito, ma di aspettare un momento: deve finire il gioco. Ha catturato tutti i nemici, è rimasto soltanto il re rivale da affrontare. Un minuto ancora e avrà vinto.
«Va beneee, ma poi torni e bastaaa.»
La ragazza si siede sul muretto ad aspettare, nota che la sto guardando e si sente in dovere di spiegare, o forse vuole solo condividere il tempo dell’attesa: «Questi ragazzi! Richiamarli a casa è sempre un problema», e sospira pensando anche a chissà quante altre cose troppe faticose nella sua vita.
Le sorrido. Sicuramente conosce Salvo.
Probabilmente è amica della moglie, potrei addirittura pensare che fosse lei, se non sapessi che loro non hanno un locale ma vivono di pesca.
«Già» le rispondo. «Devono divertirsi molto a giocare liberi.»
«Sì, sì, ma selvaggi ci crescono. Poi d’inverno a scuola non ci vogliono andare, abituati a stare sempre fuori.»
«È Suo figlio?» le domando facendo cenno al bambino biondo, Alberto.
«No, no, io ancora non sono maritata. Mio nipote è: figlio di mia sorella. Lo guardo io perché lei è incinta del secondo e deve stare a letto.»
«Ah.»
«E Lei ha figli?»
È la seconda persona da quando sono qui che mi fa questa domanda.
«No, non ancora.» Aggiungo una mezza verità rassicurante: «Mi piacerebbe presto. Mi sono incantata a guardare questi ragazzini giocare».
«Sì, ma selvaggi sono questi.»
Scuote la testa e ricomincia a chiamare: «Albertoooo». «Mi scusi ma devo riportarlo subito a casa.»
Capisco che considera conclusa la conversazione. Devo approfittare di questo momento per chiederlo. Prima che Alberto si decida a tornare e spariscano insieme nel bar.
«Senta, sono qui in vacanza con mio marito e stasera vorremmo mangiare del pesce fresco. Sa da chi possiamo comprarlo? Se qualcuno qui lo vende?» le chiedo mentendo.
«Qui a Lingua c’è un pescatore, è uscito in barca nel primo pomeriggio e dovrebbe tornare tra poco, se ha la pazienza di aspettare. Sennò c’è la pescheria a Santa Marina, ma chiude per le otto.»
«Grazie. E dove approda il pescatore solitamente?»
«Laggiù al molo lo può aspettare. Dieci minuti al massimo, anzi: in ritardo è oggi. Ci porta il pesce per il ristorante, sa, freschissimo è, può stare tranquilla», e indica uno scivolo per le barche accanto al faro rosa.
Sulla spiaggia è rimasta ormai solo una coppia di mezza età, lei legge il giornale e lui è sdraiato come se il sole fosse ancora alto. Sono turisti e, con ogni probabilità, non mi noteranno nemmeno.
L’aria si sta facendo fresca.
Alberto finalmente raggiunge la zia, lei lo copre con un asciugamano bianco pulito: «Sei tutto sudato, guardati! E pieno di graffi peggio di ieri, sei». Gli mette una mano sulla testa, perché ora è finalmente sotto la sua protezione, e si dirigono insieme verso il ristorante.
«Arrivederci» mi saluta distrattamente, mentre il bambino cattura la sua attenzione, raccontando qualcosa circa il punteggio ottenuto al gioco e vantando la sua squadra rispetto a quella capitanata da Calogero.

Guardo il mare.
Ora che i bambini, uno dopo l’altro, hanno seguito Alberto e sono andati via; ora che il giorno sta veramente finendo e la barca, animata e piena di voci fino a poco fa, giace sulla spiaggia solitaria; ora, la mia unica attenzione è per quella che verrà dal mare. Una barchetta che avvisto in lontananza, verso costa, sotto i riflessi dell’ultimo sole. Non riesco a distinguere se sia lui, però vedo la sagoma di un solo uomo. Questo mi tranquillizza: se fosse stato con il suocero o semplicemente con un amico, sarebbe stato complicato controllare le mie emozioni e la sua sorpresa.
La barca si avvicina.
Il profilo dell’uomo mi è familiare. Ha i capelli fino alle spalle, ondulati; sta tirando su le ultime reti e guarda il cielo.
È lui.
Voglio guardarlo prima che veda me, capire se è cambiato molto, studiare i suoi occhi per come sono tutti i giorni, prima che mi vedano e adattino la loro espressione alla circostanza.
È ancora bellissimo, più maturo però. Ha un po’ di capelli bianchi e la schiena più curva. L’espressione è più seria, quasi provata dalla vita.
Salvo.
Qui a pochi passi da me. Qui dove lui è tutte le sere, e io non sono mai. Sto spiando la sua vita.
È abituato a essere solo lui e il mare. Trascina la barca in secco, prende i secchi con il pesce, sistema le reti e si pulisce le mani con l’acqua di una bottiglia e mezzo limone; si siede su di un’asse di legno in spiaggia, manda i capelli all’indietro e accende una sigaretta; guarda il sole tramontare di fronte a lui, mentre gode un po’ di riposo dopo la giornata di lavoro.
Poi, uno sguardo che attraversa il tempo congiunge il passato a questo presente assurdo.
Mi riconosce.
A volte le cose finite non dovrebbero ripetersi, perché può essere che abbiano senso soltanto nel passato: lo sguardo è per un attimo quello di due amanti, quelli di una volta; uno sguardo che ha attraversato il tempo per arrivare fin qui, durando però un istante soltanto.
 Poi tutto si fa duro e attuale. Mi fissa con stupore, con sofferenza e, infine, con crudeltà. Volta le spalle e se ne va verso il mare scuotendo la testa.
Lo rincorro: «Salvo...».
Sta lanciando pietre nell’acqua e si guarda intorno per essere certo che non ci sia nessuno a vederci. Il cuore mi batte innegabilmente, ma lo misuro con la realtà: ora che ce l’ho di fronte, mi chiedo se sia valsa la pena pensare a lui per dieci anni, e se questo confronto tra uomini così diversi non abbia rovinato anche il matrimonio con Fabio.
«Volevo solo salutarti…»
«Maledizione» dice soltanto, mentre continua a lanciare le pietre senza guardarmi.
«Senza rancore, dai. Sono cose senza senso ormai…» dico per rassicurarlo. Credo abbia paura che io pretenda di far tornare tutto come prima semplicemente con la mia presenza qui, infatti aggiungo: «So che ti sei sistemato e sei sposato, sono felice per te».
«Senza senso sei tu! Che ne sai? Ho sposato me’ mugghièri ppi dimenticari a tia.»
E tutto prende senso con questa frase, che lo voglia o no.
«Salvo, non immaginavo…»
«Che non immaginavi? E ora pure ccà vinìsti? Vattìnni, stronza!»
«Non pensavo…» continuo a ripetere di non sapere, quando invece so.
«Dai: affrontiamoci, superiamo insieme la cosa una volta per tutte» propongo, e mentre lo dico mi sento ridicola quanto quei manuali che vorrebbero insegnare alle persone a superare la rabbia, l’amore e forse anche la vita stessa.
«Le stesse minchiate di sempre dici.»
Tira l’ultima pietra.
Ora che si è sfogato viene la parte più pericolosa.
Ora che la rabbia è scemata, si volta e mi guarda dritto negli occhi.
Ora può succedere tutto.