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venerdì 15 febbraio 2019

Il fascino spettrale della Caldara di Manziana


Ricompreso all'interno del Parco Naturale di Bracciano - Martignano, della regione Lazio, il suggestivo Monumento Naturale della Caldara di Manziana si estende per circa 90 ettari nel territorio di Manziana - appunto -, in provincia di Roma. L'area protetta, istituita nel 1988, comprende diversi ambienti di elevatissimo interesse naturalistico e geologico. Vi si arriva a piedi, seguendo il percorso tracciato all'interno del bosco di Macchia Grande, oppure direttamente con la macchina, percorrendo Via della Caldara e parcheggiando a pochi metri dall'area protetta.
Comunque decidiate di giungervi, siate pronti al vero viaggio: quello interiore! Questo luogo vi trasformerà dentro, se non altro per il tempo che vi rimarrete, incantati dal fascino spettrale della Caldara. Vi saprà trattenere all'interno del suo cratere circolare come se foste entrati in un cerchio magico - e forse è esattamente così. Un "altro" dall'esterno capace di imprigionare e trascinare rapidissimamente dentro il suo universo. A parte. 

Panorama della Caldara di Manziana.

Già camminando verso la Caldara, guidati dalla segnaletica e dall'odore solfureo, ma anche e soprattutto da un sesto senso che inesorabilmente vi attira nella direzione giusta, noterete le prime avvisaglie di un ambiente particolarissimo. Diverso. Saprete subito che qualcosa sta mutando nel paesaggio, qualcosa di anomalo che tratteggia i confini tra la normalità e l'eccezionalità. Il prato, che non è ancora torbiera, appare già piegato in ciuffi che si incrociano a destra e a sinistra, alternandosi in un ricamo naturale destinato ad allertare i nostri sensi non abituati al disegno vegetale di trama e ordito. Immaginiamo il divertimento di un vento burlone e inventato. Sospettiamo che invece non sia opera sua. Crediamo nel soprannaturale per più di un istante. E andiamo avanti.

Bosco di betulle bianche.
L'impatto visivo, entrando nel vivo dell'area protetta, è tutto sul bianco dei tronchi del bosco di betulle che circonda la caldara vera e propria. Le betulle bianche a queste latitudini e con queste temperature, non dovrebbero crescere. Sono alberi tipici di climi più freddi. Qui una assoluta eccezionalità. Un sovvertire le regole che, in questo luogo, sta diventando l'unica regola. Tutto è diverso.  Qui. Tutto è eccezione.
E così, il bosco naturale del tutto innaturale in questo clima, è il più esterno degli ambienti di questo luogo. Quello che circonda e protegge, quasi nasconde la Caldara. Le betulle appaiono come una visione. Sentinelle che vegliano sui segreti del luogo delimitando il perimetro: il confine tra esterno ed interno, qui nettissimo. Fuori, vige la normalità; dentro, tutto cambia e si seguono regole differenti. Le "non regole" che  tipizzano  questo luogo e lo differenziano.
 
Bosco di betulle bianche.
 
A guardarle, le betulle, così bianche e con i rami spogli e spezzati, non possono che ricordare fantasmi. Spettri guardiani sulla soglia dell'inferno. Vinti anch'essi. E in effetti questa zona era consacrata al dio dell'oltretomba Manth, probabilmente proprio a causa dell'ambiente spettrale e dei fenomeni vulcanici a cui l'area è strettamente legata e che oggi non sono che i residui del vulcanismo sabatino di un tempo. 
 
Particolare di una polla sulfurea.
All'interno dell'ambiente paludoso della Caldara, sono facilmente osservabili fenomeni vulcanici: polle d'acqua, odore sulfureo, geyser naturali dovuti a sorgenti con emissione di anidride carbonica. Il fango della palude si colora di giallo e di rosso a traccia dei minerali che la terra sprigiona.
 
 
Palude con fenomeni vulcanici.

Sorgenti sulfuree nella palude.

Camminare nella palude, con le suole delle scarpe che sprofondano in una terra vivissima, che si mescola e rimescola e in questo eterno movimento attira dentro di sé, è come essere trascinati nel mondo degli inferi. Le narici si nutrono di un'aria densa di minerali, che odora di sottosuolo. La vista spazia sul paesaggio spettrale, chiuso in sé stesso e non abitato da anime umane. Le sorgenti che sgorgano regalando alla vista un po' del mondo sotterraneo, potrebbero ricordare benissimo il rumore dello Stige. Siamo all'inferno. E scopriamo che ci stiamo anche bene. La sensazione è quella di essere avvolti dal luogo, all'interno del suo cerchio magico che ci incastra e nello stesso tempo ci protegge: finché vi resteremo saremo coperti dalla magia spettrale di questo luogo che ci attrae fascinoso di vita e di morte al tempo stesso. Legato così indissolubilmente al sottosuolo, eppure luogo di vita, di acqua e di minerali. Di alberi così come di graminacee che decomponendosi danno vita al terzo degli ambienti della Caldara: la torbiera.
E così, dinanzi al bosco di betulle bianche, alla torbiera e infine alla palude ci troviamo immersi e completamente catalizzati da un paesaggio inusuale; fatto come a matriosca, dove questi tre ambienti sono contenuti uno dentro l'altro. E' un paesaggio che ci penetra dentro con la sua anima affascinante e inquieta. Tenebrosa e ammaliante. Un paesaggio che ci risucchia, che ci corteggia spaventosamente e ci invade la nostra, di anima.
 
Gli ambienti della Caldara: bosco, torbiera e palude.
 
Torbiera e palude della Caldara di Manziana.
 
La palude della Caldara di Manziana.
 
E nel silenzio tangibile di questo luogo, interrotto solo dal gorgogliare delle acque, è facile individuare presenze fatte poco di più che d'aria. Nel miscuglio tra palude e torba, tra i rami contorti di betulle fantasma che qui non dovrebbero essere, ecco salire dei vapori riflessi che assomigliano a qualcos'altro. Ci giriamo sospetti indovinando presenze. Soli e mai soli in questo luogo la cui anima è fatta di contrasti, di inquietudini, di fascino e di mistero. Un'anima bianca come i tronchi delle betulle, un'anima nera come la sua stessa palude. Un luogo unico, dove suolo e sottosuolo si intrecciano in una lotta che assomiglia a quella tra la vita e la morte, tra il reale e l'irreale e che non è nessuno dei due. 
La Caldara di Manziana è "Altro". Semplicemente.
 





venerdì 14 dicembre 2018

L'anima malinconica e solenne dell'antica Monterano


Nella regione Lazio, a nord di Roma e a ovest di Bracciano, ad appena due chilometri da Canale Monterano nuova, sorgono i resti di quella che fu Monterano. Città di antico splendore, dalla storia travagliata fatta tanto di gloria quanto di abbandono. Oggi una della più affascinanti e ben conservate "città fantasma" d'Italia. Inserita in un contesto naturale prezioso: tra i Monti della Tolfa e i Monti Sabatini, nel cuore della Riserva Naturale Monterano, sorge su un'altura di tufo tra le forre del fiume Mignone e del torrente Biscione. L'intima commistione tra storia, architettura e natura ne fa luogo di rara emozione e indiscusso fascino.
E' necessario tratteggiare, anche solo brevemente, la storia millenaria di Monterano per comprendere pienamente la particolare e rarefatta atmosfera che aleggia tra le sue rovine.
I primi insediamenti si devono al popolo etrusco, di cui ancora oggi restano evidentissime  impronte. 
Sepolcreti etruschi.
Alla base stessa dell'altura madre della città ci si imbatte in sepolcreti etruschi, utilizzati poi nei secoli come cantine e stalle dai popoli che si sono succeduti al controllo. Infatti, passata sotto il dominio dell'Impero Romano e poi declinata con l'avvento dei Longobardi, la storia di Monterano non è che ancora all'inizio. Risorse durante il Medioevo per arrivare al periodo di massimo splendore con il ducato degli Altieri: papa Clemente X commissionò al Bernini opere di pregio per la città, che conobbe così la più florida fioritura. Tuttavia un oscuro destino di declino, ma non certamente di oblio, ha sempre seguito le fila della storia di Monterano. Dalla morte di Clemente X iniziò una lenta decadenza e lo spopolamento, questa volta definitivo, nel 1770 in seguito a un'epidemia di malaria e infine nel 1800 con l'incendio e il saccheggio da parte dell'esercito francese.

Ma veniamo a noi e a quello che, oggi, significa visitare ciò che rimane di così tanta storia lasciata da popoli diversi che si sono affaccendati in questi stessi luoghi.
Monterano vista dal sentiero.
Entrare nella riserva, seguendo il sentiero ben segnalato tra i boschi, verso le rovine, è come entrare in un'area magica, un perimetro protetto da forze misteriose e altro dall'esterno. Vedere comparire sull'altura, tra gli alberi, i resti di Monterano, imponenti, è il primo, diretto impatto, su quella che doveva essere stata la forza dirompente di questa città, che ancora oggi conserva il suo aspetto solenne, elegante e a tratti altero. Sarà per via della posizione sulla sommità, sarà per l'architettura robusta dei suoi edifici, essa pare dominare perfino la natura che si apre, riverente, intorno alle prestigiose rovine. 
Certamente non mancano, come in tutte le "città morte" che si rispettino, leggende dal sapore esoterico. Si racconta di un ponte, essenziale per superare il dislivello dell'abitato dalla strada sottostante, ma di difficile costruzione per via di un vento insistente e impetuoso tra le forre. Solo un patto con il diavolo portò alla costruzione, in una notte, di un ponte finalmente solido e indistruttibile. Tuttavia gli abitanti, banchettando con gli animali uccisi in sacrificio, scatenarono le ire del Maligno, che maledì la città condannandola al suo destino. 

Rovine dell'antica Monterano.

Rovine dell'antica Monterano.

Il Palazzo Baronale e la fontana del Bernini.

Salire in cima all'altura è entrare nel cuore della città antica. Perdersi tra un dedalo di viuzze ormai fatte di sentiero, con le rovine che emergono tra l'ambiente naturale, contendendosene a pieno titolo la scena. 
Primo su tutti il Palazzo Baronale Altieri, prestigiosa opera del Bernini, insieme alla Fontana del Leone posta sulla facciata, che come una potentissima macchina del tempo ci riporta a quello che doveva essere allora. Lo vedete? Il giovane Bernini affaccendato tra queste vie. Lo sentite, tornare intatto dal tempo passato, il vociare del popolo? La vita quotidiana, rumorosa, di questa città, improvvisamente di nuovo viva. Nella vostra mente che potentemente sa richiamare un passato imprigionato nelle solide mura. Le vicende dei nobili e del popolo, intatte, destinate a ripetersi, sempre uguali a come sono accadute, in un tempo ormai immutabile ma circolare. Che torna al suono del vento; che torna nella mente di voi visitatori dal cuore sensibile e dalla mente aperta; che torna negli occhi di chi sa vedere. Le ombre dei rami degli alberi su queste possenti mura di pietre dorate da un ultimo sole, non vi sembrano disegnare le sagome del passato? Rimandare a gioie, dolori, segreti irrivelabili richiamati dal tempo che fu. Un sentimento di circospetto silenzio ci invade. Rimaniamo così. Riverenti ad ascoltare un passato presente. Un tempo fatto di splendore e di declino, di gloria e di infamia, di potere e di sconfitta, così come la vita stessa.

E poi scendere a valle. E con questi sentimenti nel cuore, veder comparire in una aperta e vasta pianura circondata da boschi, quel che rimane della chiesa e convento di San Bonaventura e della fontana ottagonale attigua. Opere del genio creativo del Bernini anch'esse.

Resti chiesa San Bonaventura.

Resti chiesa San Bonaventura e fontana ottagonale.

Parlano, queste rovine. Raccontano da sole la loro storia. Così arrogantemente da urlarla. Non si può non sentirla. Prepotentemente poggiata sulla rugiada del verdissimo prato illuminato dal freddo tramonto invernale. Sparsa per l'aria rigida che ci avvolge in una dimensione atemporale. Insita nella materica fontana che si sovrappone alle linee della facciata della chiesa. C'è qualcosa di sovrannaturale, nei raggi di luce che filtrano dalle rovine per andarsi a posare, disegnandone netti i robusti contorni, sulla fontana. Qualcosa di studiato e certamente non casuale, dove ogni simbolo accresce un sentimento di reverenza non soltanto dovuto all'antichità e alla sacralità di queste rovine. C'è qualcosa di più, di inafferrabile e indefinibile: un'energia forse collegata direttamente al sottosuolo di questo territorio, dove tra boschi e pascoli di animali allo stato brado, scorrono acque solfuree con il loro tipico odore di zolfo che trascina direttamente nel mondo degli inferi. O data dallo scenario adatto alle streghe, con questa pianura piazza di incontri e di fatture. O dalla natura stessa addormentata dall'inverno, ma che conserva in sé la vita ad animare per osmosi le rovine. O dalla luce densa, quasi afferrabile e tangibile, che disegna sagome di spettri. 

Ma l'emozione più forte di tutta la visita a Monterano, quella che ci lascia senza parole e con il cuore che per un istante smette di battere, sospeso, catturato da un vortice temporale abissale e sconvolgente, è sicuramente l'interno del convento. Qui, tra un'intricata architettura più che indovinabile tra i crolli, nasce dalla loro stessa calce un fico di oltre duecento anni. Albero monumentale del Lazio, che con la sua circonferenza occupa l'ambiente principale della struttura e con i suoi nove metri d'altezza la supera, oltrepassando un ideologico soffitto che ormai non esiste più, in cerca del cielo. Di una libertà maggiore di quella che entra nella struttura pur oramai aperta. Perché di libertà, a dire la verità, dentro non c'è traccia. Si è schiavi assoluti, schiacciati dai cornicioni intatti più che da quelli crollati. Dalle rivelazioni di voci che non danno tregua. Ci seguono ossessive per i locali dell'ex-convento. Sono le vite dei sacerdoti, che qui non volevano stare neppure loro e che mano mano abbandonarono il convento, troppo isolato. Troppo insidioso. E' così oggi più che mai. C'è troppa solitudine in questo luogo. E tuttavia non c'è quiete. E' un luogo che ti imprigiona, ti costringe alla sua storia. La sacralità del posto, la sua bellezza di tetra malinconia, vi attrarranno come un vortice a cui è difficile sottrarsi. Ci si sente dentro qui. Dentro la chiesa, dentro la storia, dentro le vite, dentro il magico cerchio del tempo. Avvinghiati come le radici di questo fico, vivo come lo sono le rovine che lo circondano. Potenti e affascinanti allo stesso modo, come il groviglio di storie umane che qui si sono succedute. Ovunque si guardi, qui tutto significa. E l'albero di fico stesso, sacro ad Atena dea della saggezza e a Dionisio dio del vino, simbolo di immortalità, non è certamente qui per caso.

Interno chiesa San Bonaventura.

Fico cresciuto sulle rovine della Chiesa.


Abbandonata forzatamente la nostra circospezione, non ci resta che abbandonarci all'anima di questo luogo. Un'anima malinconica e solenne. Solcata dalla tristezza di un destino che ne ha voluto, beffardo, l'abbandono, ma che non vi si arrende mai pienamente. Basti pensare a quanti film sono stati girati proprio tra le rovine di Monterano: Guardie e ladri, Brancaleone alla crociate, Il marchese del Grillo di Monicelli, su tutti.
Il silenzio non calerà mai su questo luogo. E anche quando, gli ultimi visitatori se ne saranno andati e la notte si alzerà sopra Monterano, gelida e ventosa, i bisbigli di voci passate e mai messe sul serio a tacere, tesseranno l'alone mistico che copre, incorporeo quanto reale, le rovine di una città in verità vivissima.





martedì 13 novembre 2018

L'energia del magico borgo di Calcata

 

La regione Lazio è ricca di luoghi affascinanti, più o meno conosciuti, dove spesso, a paesi caratteristici si combinano elementi di grande valore naturale. Sicuramente merita una visita, su tutti, il piccolo borgo medievale di Calcata, in provincia di Viterbo, immerso nella splendida valle del fiume Treja. Un luogo unico nel suo genere, che non si dimentica facilmente. Partiamo dal primo impatto: quando il paese appare al visitatore tutto arroccato sulla sua montagna di tufo, che emerge alta in mezzo alla valle completamente ricoperta da boschi selvaggi. Già questo panorama ha qualcosa di particolare e atipico. Le case sembrano nascere dalla stessa montagna, in una continuità di colore, come se per magia la roccia improvvisamente si trasformasse essa stessa, modellandosi nella forma delle case. Stabilire i confini, dove siano le une e dove l’altra, è spesso complicato dalla fortissima coesione estetica ed emotiva tra case e roccia. Calcata è la sua stessa montagna che la sorregge e la protegge, offrendola come fiero trofeo, alzato sul podio della valle boschiva e misteriosa che la circonda. E’ un’isola che emerge silenziosa nel mare di alberi, dal fortissimo impatto emotivo. Promessa di un luogo che difficilmente è classificabile in una precisa categoria. 
Partiamo dal presupposto che fino agli anni 60, Calcata era un borgo quasi dimenticato, ormai spopolato e destinato a scomparire. Poi le cose andarono diversamente: nel borgo iniziarono a trasferirsi artisti, artigiani e hippie desiderosi di fuggire al caos dell’evoluzione del mondo contemporaneo, sempre più accelerato. Fecero di Calcata la loro dimora fuori dal mondo e dal tempo. Un luogo scelto, elitario, dove potersi dedicare all’arte in una dimensione totalitaria. Presero ad abitare le case, a trasformare le cantine in botteghe e gallerie d’arte, ad attirare curiosi che desideravano vedere con i propri occhi “il borgo degli artisti”, dove questi vivevano una vita parallela e contraria a quella del resto del mondo. Una realtà creata essa stessa dalla loro arte; un luogo inventato, dove tutt’oggi ognuno degli abitanti dà vita al proprio estro creativo personale, e il luogo è poi l’atipica somma di quello di tutti.

Porta d'ingresso a Calcata.
A Calcata si entra da un’unica porta di accesso tra le sue mura e poi una breve salita conduce direttamente alla piazza cuore del piccolissimo borgo. Più che una porta, è un vero e proprio varco che segna il passaggio dal mondo e dal tempo normale, ad una dimensione surreale e magica. Si respira mistero entrando. Si rallenta il passo, perché qualcosa di particolare, un’atmosfera che percepiamo subito mistica, ci allerta i sensi. Respiriamo il luogo. Rallentiamo automaticamente anche i battiti del cuore. Ci dobbiamo fermare a capire cosa succede, cos’ha, questo luogo, di tanto differente dagli altri, da farci osservare intorno con sguardo quasi reverenziale, alla ricerca di quei particolari che ci possano aiutare a decodificare il mistero che sentiamo nascere dentro. I sensi si amplificano, subito, fin dal primo istante che si entra nelle mura; ogni dettaglio ci fa percepire che non siamo in un luogo qualunque. Ci arrivano fortissime delle sensazioni che non sappiamo spiegare, ma che ci fanno intuire ci sia un significato profondissimo in ciò che guardiamo con occhi aperti e i sensi allertati. 
C’è chi dice che Calcata sia anche il “paese delle streghe”, che nelle cantine ci siano testimonianze segrete di un passato esoterico e che riti magici si continuino a fare. Si racconta che ai tempo dei Falisci, il punto dove sorge Calcata fosse centro di energie del sottosuolo e occultismo. E che tuttora, nelle notti di forte vento, i vicoli del borgo sembrino cantare e che quello sia il canto delle streghe.
E poi c’è una leggenda, di origine religiosa, secondo la quale proprio a Calcata è custodito il prepuzio di Gesù, tagliato al suo ottavo giorno di vita, conservato a San Giovanni in Laterano fino al Sacco di Roma, quando fu trafugato da un lanzichenecco, poi imprigionato a Calcata. Il prepuzio sarebbe stato ritrovato nella sua cella nel 1557. La leggenda è riportata anche nell’Ulisse di Joyce e nel Vangelo secondo Gesù Cristo di Saramago.
Non sarò certo io a stabilire a cosa attribuire la sensazione che si prova entrando a Calcata, sicuramente c’è un’energia fortissima, palpabile, che scuote la mente di chi sa sentire. Non so se sia legata alla magia o forse alla stessa potenza dell’arte, ma sicuramente accade qualcosa di surreale, entrando nel borgo, attraversando quella porta – simbolo, ricoperta di muschio. Inutile specificare che, una volta dentro il borgo, misteriosamente i cellulari non prendono più.
L’architettura di Calcata è qualcosa di assolutamente atipico per vari motivi. Intanto tutto si sviluppa intorno alla piazza principale, con la chiesa, il castello, dei curiosi troni di pietra e un via vai di personaggi particolari e botteghe artigiane e localini dall’arredamento esotico ed eccentrico. Da qui, intorno, una serie di piccole viuzze si diramano e finiscono tutte a precipizio sulla montagna di tufo, con panorami sconfinati e memorabili sulla valle incontaminata. Non si va da nessuna parte, a Calcata. Tutte le strade portano a quel precipizio di orribile bellezza. Passaggi stretti, vicoli, cortili interni. Tutto conduce qui. Al vuoto che la circonda. E proprio affacciate sul vuoto nascono, avvinghiate alla roccia, case e terrazzini.

Casa scavata nella roccia e affacciata sullo strapiombo.

Via che termina sullo strapiombo.
E poi tutto è condito da un arredamento improbabile, senza alcuna coerenza né regola. Non ci sono regole, a Calcata. La normalità è l’imprevedibile. E così spuntano: panchine giganti fatte da tronchi; lampadari antichi appesi a lampioni; portoni dalle forme strane; pezzi di mosaico che così come improvvisamente nascono così senza un perché si interrompono; curiosi bazar; una finestra di un rosso sgargiante in una casa grigia; pantaloni appesi al muro di casa; quadri buttati tra attrezzi da lavoro; scale rivestite da perline ma soltanto in parte, senza coerenza di inizio e di fine; specchietti come amuleti attaccati alle finestre. In una casualità che solo nell’insieme trova senso. L’unica regola, quella che dà unità al tutto, è che non ci sono regole.

Particolare portone.

Lampadario appeso a lampione.

Scala decorata.












Finestra rossa.

E poi ci sono ancora i numerosissimi richiami all’India, ricordi dei viaggi che gli artisti degli anni 60 facevano in questo continente e poi venivano raccontati, a Calcata, intorno ai fuochi accesi nella piazza. E ancora oggi, girando tra i vicoli del borgo, si sente raccontare di viaggi e di musica e di letteratura e d’arte. Il clima culturale, forse un po’ chiuso in sé stesso, nelle visioni di ciascun artista, si nutre però di racconti di terre lontane. Lontane poi forse solo fisicamente, perché Calcata è al di fuori dallo spazio e dal tempo, potrebbe essere ovunque e da nessuna parte. Nella fantasia si può facilmente immaginarla staccarsi dalla terra e prendere il volo, così tutta insieme alla sua montagna di tufo, e vagare nell’aria. La maggior parte delle case, a Calcata, ha grotte sotterranee spesso collegate tra loro da cunicoli. In queste grotte, ristrutturate, sono nati locali particolari e botteghe d’arte; altre sono rimaste come magazzini. Qualunque ne sia l’uso, spiarne l’interno è un’esperienza unica: si trovano spesso affastellate cose di ogni genere, mischiate tra loro. Improbabili. Una antica armatura completa, troneggia dentro una bottega artigiana. 

Vasca con larve di pietra che escono.
Pappagalli appesi ad un arco.














E ancora si possono trovare case scavate nel tufo; vasche da cui escono enormi larve di pietra; opere d'arte che adornano muri scrostati e decadenti; pappagalli colorati che stridono con l’arco di pietra sporca su cui sono appesi da chissà quanto tempo. 
La decadenza è un altro aspetto che a Calcata si rincorre tra i vicoli, dove non è raro imbattersi in tavolini arrugginiti, oggetti rotti, cantine abbandonate, scope e altri attrezzi lasciati a caso. In un contrasto forse non casuale, ma costruito appositamente per non farci troppo abituare alla bellezza del posto, quasi a volerci ricordare che è tutto di passaggio, che il tempo cancellerà ogni cosa. E così, accanto a curati vasi di fiori, ecco giocattoli rotti, tavolini arrugginiti, testimoni di un tempo che non esiste più, di uno scorrere che è destinato a portarsi via la bellezza e il tempo presente e noi stessi.
Un cartellone di un festival hippie tenutosi nel maggio scorso, ancora per strada, con due sedie abbandonate accanto, a raccontare di una musica viva, ma che ora non c’è. Testimonianza del tempo che corrompe tutte le cose. Strade vinte dal muschio, panchine fatte da tronchi rotti, intonaco scrostato. Il tempo passato sotto i nostri occhi, visibile. Qui non restaurato dal nuovo, forse affinché sia vivo insieme al presente, suggerendo un’unica continuità temporale.

Strada decadente.
Cartellone festival hippie in una strada tipica.

E ancora: il vero e il falso che si mescolano, a Calcata. Come nell’arte stessa, che trae dal reale ma poi non lo è. E allora ecco i fiori finti spesso insieme a quelli veri, animali di legno o bambole affacciate alle finestre come fossero bambini veri, creature di stoffa, pupazzi di cartapesta, che sostituiscono la figura umana. In una veglia perenne, in un’accoglienza continua del visitatore, in un sorriso che, almeno nella finzione, non è intaccato dal dolore. Il mondo delle illusioni fantastiche. Travestimenti, costumi. Dove non ha più senso alcuno distinguere il vero dal falso. Importante è solo il significato che rappresenta. 

Bottega di pupazzi in cartapesta.

Bambole affacciate ad una finestra.
Insegna di un teatrino.

L’insegna di un teatrino ambulante, attaccata a un muro. Perché è tutto irreale: lo spettacolo è annunciato ancora da quelle parole che rimangono immutabili nel tempo, ma dietro ormai nessun personaggio più si muove, nessuna rappresentazione va più in scena. E senza l’irrealtà, resta la nuda verità di un muro, irreale anch’essa.
E quanto ha affascinato Calcata nel tempo! Set cinematografico di numerosi film come "Amici miei" e del video di “Una storia sbagliata” di De André. Amata, criticata, compresa o meno, Calcata non può lasciare indifferenti.

Una tipica vietta di Calcata.
Installazione artistica su muro.

Ma qual è, dunque, l’anima di Calcata? E’ un’anima di follia, di arte, di magia, di mistero, di natura, di assurdo. E soprattutto di energia. Perché è questa che emana da ogni pietra, in ogni angolo e in ogni vicolo di questo borgo. Un’energia viva, antica e profondissima, che mescola l’arte con la natura, la verità con la finzione, il presente e il passato in un nuovo non - tempo indefinito, il bello con il triste, la magia e l’esoterismo. Un’energia che trasuda cultura, mistero, racconti lontani e vicini. Un’energia che ti fa rallentare il cuore, respirare profondamente, in un attimo comprendere il senso stesso della Terra, l’attimo dopo dimenticarlo perché da umani non è sostenibile una tale, fortissima, percezione. C’è un ordine, nel caos atipico di Calcata: è l’energia vitale che si concentra in alcuni luoghi della Terra. Calcata è uno di questi, preziosissimo punto di raccordo.
E quando cala la sera, e si accendono le luci degli strambi lampadari e le insegne degli affascinanti locali senza senso, e le streghe sembrano veramente camminare nelle ombre dei vicoli, allora provate a percorrere una qualsiasi stradina che vi porterà allo strapiombo, affacciato sulla valle del Treja. Qui, nel silenzio assordante nella notte, attaccati all’ultimo sperone di roccia prima del vuoto, con l’orizzonte ancora infuocato dall’arancione del tramonto, la luna già alta nel cielo, il nero della notte che si è già preso gli alberi dello sterminato bosco sotto di voi... qui sentirete l’acqua del fiume a valle scorrere, creare una musica sottile, indovinerete le ombre della notte e percepirete il respiro della Terra. 
E sarete felici di voi stessi, perché avete occhi che sanno vedere e un’anima che sa sentire.





giovedì 26 aprile 2018

La contagiosa freschezza del lago del Turano


In provincia di Rieti, a circa un'ora e mezza di distanza d'auto da Roma, il lago del Turano si guadagna la nomina di uno dei più bei "tesori" del Lazio. Imperdibile per gli amanti della natura - seppur artificiale -, il lago è lungo una decina di chilometri e circa trentasei perimetrali. Una bella estensione, variegata, circondata da dolci colline, lambita da prati lungo le sponde, ravvivata dalla presenza di due splendidi piccoli borghi: Colle di Tora, a penisola sul lago, e Castel di Tora, posto su un cucuzzolo da cui si gode uno splendido panorama del lago dall'alto, con la strada che passa, suggestiva, nel mezzo.
Non nascondo che il lago del Turano è uno dei luoghi che più mi sono cari nel Lazio. Ho passato diverse piacevoli giornate qui, e ogni volta è sempre rilassante un pic-nic sui prati che lo circondano e sempre piacevole la scoperta di qualche nuovo punto panoramico. 

Panorama del lago tra gli alberi.
Rallegra l'anima, quando dopo tanta strada per raggiungerlo, si iniziano a vedere le sue acque trasparenti, animate da insenature che si fanno sempre più grandi, fino a raggiungere quella principale, da cui sono visibili Colle e Castel di Tora. Le belle colline verdeggianti si susseguono incessantemente per tutto il perimetro del lago. Il verde e l'azzurro, i colori che rasserenano la vista e predispongono la mente al riposo.

Sicuramente la stagione migliore per concedersi una gita al lago del Turano è la primavera. Quando i prati intorno alle sponde si fanno vivi del verde della nuova erba, le spallette si riempiono di fiori e l'aria è meravigliosamente ricca dei profumi della natura.
Fioritura primaverile al lago del Turano.
Prati verdissimi circondano il lago.
 

Sorprende sempre la grandezza e al contempo l'accessibilità del lago. La strada, proprio appena sopra di esso, permette di percorrere buona parte del suo perimetro, perciò ci si trova a guidare piacevolmente colpiti dalla bella vista, e non è difficile notare diversi punti di accesso più o meno semplice. Per i più giovani e sportivi, infatti, non è certo un problema affrontare il leggero dislivello tra la strada e il lago, e scendere il declivio fino al prato. E di prati è veramente circondato il lago. Questa è forse una delle caratteristiche che più colpiscono del Turano. Solitamente le sponde dei laghi sono fatte principalmente di sabbia scura o di pietre, almeno a riva; qui invece il prato arriva, in alcuni punti, praticamente fino all'acqua e, in primavera, camminare scalzi, tra l'erba morbida, o sdraiarsi con un telo a guardare le nuvole in cielo o socchiudere gli occhi, cullati dal rumore dell'acqua, che ondeggia al piacevole venticello, ci fa sognare. Ci fa tornare un po' bambini e viene voglia di correre spensierati e rievocare  le stesse sensazioni provate negli anni dell'infanzia, quando ancora tutto era possibile, quando nessun pensiero adombrava la nostra mente, e contava solo il "qui ed ora". Ecco. Starete talmente bene, tra le fresche sponde del Turano, respirando la sua anima gentile, all'ombra piacevole dei suoi alberi, che vi sentirete rigenerati. Sereni e protetti come da bambini. Senza più tempo. Quello che conterà sarà solo l'attimo presente, di benessere e positività. Il venticello che accarezza qui la vostra testa, servirà a portare l'oblio delle cose negative nella vostra mente. Non è assolutamente questo il senso di una gita fuori città? Non è esattamente questa - momentanea, ma assoluta - pace, che cerchiamo? Qui siete nel luogo giusto. Perché l'anima fresca, leggera, allegra e gioviale del lago del Turano, contagerà di lievità anche la vostra anima. Godetevi questa sensazione. E poi alzatevi con la voglia di scoprirlo, questo bel lago che avete amato. Non fermatevi sempre nello stesso punto, perché merita di essere conosciuto. E dopo averlo fatto, tornate a casa felici e conservate del cuore la sua freschezza contagiosa di vita e di giovanile allegria.

Panorama del lago.

Panorama del lago.     
 
Arrivederci alla prossima avventura...
 
 
 

mercoledì 22 novembre 2017

Tra favola e inferno: un autunno alla Riserva Naturale Monterano


Siamo nel territorio della Tuscia Romana, tra i Monti della Tolfa e i Monti Sabatini. E' qui che è stata istituita, nel 1988, la Riserva Naturale Monterano, a tutela di uno degli angoli più integri e suggestivi del Lazio. Si tratta di un ambiente ampio e variegato, di altissimo interesse naturalistico, sia a livello di flora che di fauna. Ed è qui, tra boschi, ruscelli, cascatelle e felci che l'autunno diventa magico. Forse è la stagione migliore per visitare la Riserva che, tinta da quelle generose pennellate di giallo, marrone e arancio che solo Madre Natura sa distribuire così bene, assume un aspetto da fiaba. Ma non solo.
Molti sono gli itinerari e i percorsi, ben segnalati e ben mantenuti, possibili per visitare la Riserva. Quello di cui vi racconterò oggi è l'inizio del percorso "rosso", che parte dal parcheggio della Diosilla, poco dopo la cittadina di Canale Monterano, a nord del lago di Bracciano, tra Roma e Viterbo. E' un percorso che inizia in discesa, con delle ripide e scivolose scalette di pietra, che vi conducono rapidamente nel cuore della Riserva. Scendere sotto il livello della strada è un po' come entrare dentro la Terra, in un viaggio alla scoperta di un mondo sotterraneo. Subito ci avvolge l'umido di una giornata di un novembre inoltrato; il rumore dell'acqua ci sprona a superare l'ostacolo degli alti gradini ricoperti di muschio; mano mano che scendiamo la luce diminuisce, trattenuta dal bosco fitto che ci sovrasta e chiude, geloso, la Riserva. Potrebbe somigliare ad una discesa agli inferi, anche per l'odore di zolfo che accompagna le manifestazioni vulcaniche tipiche di questa zona, visibilmente presenti nella schiuma naturale che costella le rive del torrente Biscione. Tuttavia è proprio questo torrentello, che scorre allegro e sottile, a strapparci dalla mente la titubanza iniziale e l'idea degli inferi, e trascinare rapidamente il nostro immaginario in uno scenario da favola. 

Torrente Biscione.
 
Scorre così: delicatamente, in un letto poco definito, quasi a non voler disturbare le pietre e il tappeto naturale di allegre foglie autunnali che ricoprono completamente la terra. Timido tra la boscaglia fitta e le radici di qualche albero. 
Come non immaginarsi qualche fata dei boschi, pettinarsi i lunghi capelli biondi seduta con grazia sulla riva del torrente, poco prima di sparire nel bosco?
Ponte di legno sul torrente Biscione.
Come non immaginarsela affacciata a questo ponticello di legno, sopra il torrente, intenta a contemplare il bosco? Cosa che facciamo anche noi, senza fretta, perdendoci definitivamente in questo mondo "sotterraneo", intimo, fatto di umido, di bosco, di tronchi ricoperti dal muschio, di felci, di rami e di foglie. Fatto di autunno.

Fatto di pensiero, di meditazione, ma anche di voglia di andare avanti nel percorso, presi dall'entusiasmo,
Bosco autunnale nella Riserva Monterano.
di scoprire dove siano nascoste le fate - perché in un luogo così, non ci sfiora neppure per un secondo l'idea che non possano esistere. Mentre l'umido rapisce le nostre narici, mentre le meraviglie d'autunno riempiono la vista e ci sorprendono per l'armoniosa bellezza, le immaginiamo - le fate - sedute su uno di questi tronchi, nel bosco. O a giocare a nascondino. 

Mentre seguiamo il corso del Torrente, alla nostra destra, il percorso continua e il bosco si fa più ampio, così come le radure, sempre più suggestive, disseminate di felci e da un tappeto sempre più grande e continuo di foglie gialle e dalle varie sfumature di marrone. Il bosco di tutte le favole della nostra infanzia non può che essere questo. Perfetto com'è. Con la sua bellezza attraente, e qualche ramo divelto che offre il giusto pizzico di inquietudine che, in ogni fiaba che si rispetti, caratterizza il bosco. Così meraviglioso eppure pieno di insidie: regno di fate e di lupi. Di sogni e di segreti. Di elfi e di nani. Di luce e di buio.

Bosco a Monterano.
 
Bosco a Monterano.
 
E il bosco che ci attrae fin da bambini. Che ci impaurisce, ma al tempo stesso ci invita  inesorabilmente a camminare, sentendo soltanto il rumore dei nostri passi che calpestano le foglie affondando nella terra umida, e il rumore delle foglie che, invece, cadono dagli alberi al momento, appena strappate alla vita, ma non per questo meno suggestive, mentre si poggiano lievi al terreno.
E camminando notiamo funghi e ciclamini e felci e muschi e agrifogli. 
E poi, improvvisamente, ci ritroviamo fuori dal bosco, illuminati finalmente dalla luce del sole che ora ci scalda, ma ancora una volta ci sembra di essere, ora in modo diverso, dentro l'inferno. Il paesaggio si fa scarno e lunare. Un forte odore di zolfo ci invade. Il ribollire dell'acqua del torrente e le incrostazioni gialle sulle rocce, ci indicano di essere arrivati alla solfatara che descriveva l'itinerario. Qui, davanti ai nostri occhi, si manifesta la potenza del mondo sotterraneo fatto di fuoco. Nel nostro immaginario, ora le fate lasciano il posto alla suggestione dell'inferno dantesco e dei suoi fiumi.

 
Polla sulfurea.
Torrente dei pressi della solfatara.

Continuando il sentiero segnalato, arriveremmo alle rovine della antica Città di Monterano. Ma le giornate sono corte e ormai sta calando il sole. Rimandiamo la visita in primavera, e, giusto per tornare un po' all'anima fiabesca del luogo, che si alterna a quella più oscura, seguiamo invece per qualche metro il percorso del Biscione, sulla sinistra. Superata la zona sulfurea, il corso del Torrente si fa più pieno di acqua e nuovamente suggestivo. Questa volta lo possiamo osservare dall'alto, dal semplice sentiero rettilineo che lo sovrasta, tra alberi di castagni e boscaglia mista. Basta affacciarsi un po', per vedere, giù, il corso d'acqua. Ancora una volta incorniciato da terra ricoperta fittamente da foglie giallissime. Si forma una luce magica, incredibilmente blu, tra i rami e il torrente. Una luce irreale, da sogno. Che avvolge tutto, esalta l'anima fiabesca di questo luogo e pare rivelare nel suo massimo splendore anche l'essenza dell'autunno stesso. 

Torrente Biscione tra il bosco.
 
Godiamocelo, questo autunno qui. Il resto del percorso ci aspetta con la primavera... la Riserva Monterano non ha assolutamente finito di sorprenderci. A presto...