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domenica 11 giugno 2017

Primavera tra le dune a Marina di Sorso


La magia della terra Sarda non finisce mai di riservarci sorprese e così, anche questa volta, desidero condurvi alla sua scoperta. 
Ancora una volta è primavera. Ancora una volta a farla da padrone sono le dune e la libertà.
Questa volta siamo nella spiaggia di Marina di Sorso. Sardegna settentrionale, tra Castelsardo e Porto Torres. Questa spiaggia è molto estesa, a tratti anche organizzata turisticamente, ma la parte più bella è indubbiamente la parte selvaggia, lasciata alla natura soltanto, che inizia poco dopo aver lasciato il borgo di Castelsardo, andando verso ovest. La scopro così, per caso, come molte altre volte succede in Sardegna: quando hai in mente una meta prefissata e prima di raggiungerla, lungo la strada, ti fermi tante e tante volte, colpito dalla bellezza di luoghi meno famosi, ma che ti catturano e ti costringono a fermarti e a viverli. I fuori programma che danno senso al viaggio e alla vita stessa. Marina di Sorso è questo. E' un regalo che non ti aspetti. E' il cuore che batte per una emozione non messa in conto. E' ancora una volta lo stupore per il valore di ogni angolo della Sardegna, quando, mentre sei in strada, d'improvviso questa attraversa pinete folte, che ti corteggiano con l'ombra e l'odore di resina. E tra la pineta, ecco i sentieri di terra che conducono al mare. Immaginato. Ti attraggono inesorabilmente. L'unica cosa che puoi fare è fermare la macchina e percorrerne almeno uno, quello che il destino ti ha riservato, con la trepidazione di scoprire dove conduca. Qui, a Marina di Sorso, quello che il mio sentiero mi riserva è il panorama sulla lunghissima spiaggia di sabbia bianca, con il mare leggermente increspato da un vento che muove le onde, sposta la sabbia, modella le dune a seconda del suo capriccio. Un vento che sconvolge anche te, che entra dentro l'anima, che ti uniforma con il luogo. Non importa se sei sabbia, acqua o creatura vivente, esso ti attraversa. E ti cambia. 

Fiori tra le dune a Marina di Sorso.
Ti trovi tra le dune. Si susseguono una all'altra. Alcune più basse, altre compatte e alte. La sabbia è bianca e finissima. La macchia mediterranea fa la sua comparsa qua e là, colorandola di verde. La primavera completa il lavoro della natura, donando cespugli di fiori gialli o fucsia. Che privilegio essere qui in questa stagione, godersi questa spiaggia ancora deserta di gente e piena di fiori! 

Macchia mediterranea tra le dune a Marina di Sorso.
Fiori tra le dune a Marina di Sorso.
Chilometri e chilometri così: di dune e arbusti e fiori. Il mare che si vede solo se riesci a salire sulle dune più alte, quando si apre il panorama su tutta la lunghezza della spiaggia. Un paesaggio sempre uguale e sempre diverso, a seconda di come si combinano tutti gli elementi che lo compongono: i pini marittimi, i mirti, i ginepri, le  fioriture primaverili. E tu con la tua brama di scoprire in ogni punto quello migliore. Spostandoti ora su una duna, ora su un'altra. Scendendo, salendo, saltando, in una ricerca continua della totalità del luogo, destinata ovviamente a fallire. Ogni punto offre una nuova prospettiva, uno scorcio differente, una nuova emozione. Ma mai potrai conoscerlo tutto, questo luogo. Ampio, esteso, destinato a cambiare sempre col vento e con le stagioni. Corri tra le dune affamato di libertà, di scoperta, di bellezza. Di felicità.

Non è facile riprendere il cammino, lasciare questo luogo, ricordarsi che la meta non era questa. Ma lo fai. Solo che durante tutta la giornata ripensi all'anima di questo luogo. Un'anima fatta di vento, di libertà, di infinite possibilità. Di natura selvaggia, di mare, di sabbia. E vuoi tornare. Alla fine del giorno vuoi tornare proprio lì dove la giornata era iniziata, anzi: su un altro sentiero tra la pineta che porta a questa spiaggia. Una storia dello stesso libro; l'altra faccia della stessa medaglia. Per scoprire ancora qualche cosa di più. Per vedere che effetto fa alla luce del tramonto, per capire se un'altra parte della spiaggia può farti battere il cuore allo stesso modo.

Marina di Sorso, alberi sulla spiaggia.

E scopri, questa volta, una zona più fitta di alberi, piegati dal vento, abituati a lottare ma anche a resistere. Scopri la durezza della natura. La forza che ci vuole per farne parte. La luce più calda del tramonto che avvolge tutte le cose. Quello che provi adesso, a quest'ora del giorno, non è più bramosia ed emozione, ma una straordinaria sensazione di pace, di consapevolezza. Un respiro dell'anima. Presto sarà sera.





domenica 26 gennaio 2014

Korcula: l'isola bosco


Non è semplice arrivare a Korcula dall'Italia. Collegamenti diretti non ve ne sono. Bisogna arrivare prima in Croazia, a Dubrovnik, o a Spalato o nella penisola del Peljesac. E da qui attendere i traghetti locali che portano sull'isola dalmata.
Una follia fare il viaggio tutto insieme. 
Una follia che ho fatto. 
Non saprei dirvi se il "sapore della conquista" abbia reso l'isola maggiormente ambita al mio animo. Ma se mi chiedeste se vale la pena mettersi in viaggio per così tante ore, appositamente per vedere Korcula, vi risponderei di sì.
O meglio, per me ne è valsa la pena. Se cercate un luogo poco turistico, estremamente selvaggio, allora ne vale la pena. Per gli amanti dei divertimenti, per chi cerca servizi turistici, affollamento, lidi, confort, decisamente consiglio di cambiare destinazione.

L'isola si presenta subito verdissima. Un bosco, praticamente ininterrotto, copre i suoi 47 km di lunghezza e le ha fatto meritare il nome greco di Korkyra Melaina (Korcula Nera) tanto è  fitta la sua vegetazione.
In realtà il colore che colpisce, già mentre dalla nave si osserva l'isola avvicinarsi, è il verde dei pini, abeti, cipressi, querce, ulivi, carrubi che la ricoprono.
Lo sapevo. Che era boscosa. Ci sono andata per questo. 
Ma vi assicuro che nessuno potrà mai prepararvi abbastanza a quanto effettivamente lo sia. L'isola è tutta un bosco. Interrotto solo dalla strada che la percorre in tutta la lunghezza e dai vari paesi e contrade. 
E' incredibile. 
Se considerate, poi, che questo bosco arriva direttamente su un mare pulitissimo e cristallino, potete farvi un'idea della bellezza di Korcula. 
Solo un'idea...



La più grande e interessante cittadina dell'isola, è proprio l'omonima Korcula. 
E il suo cuore è sicuramente la Old Town, delizioso gioiellino medievale, che sorge su una penisola, costruito tutto in pietra dalmata, e con i caratteristici tetti rossi. 

Circondata da mura di cinta, la città antica è accessibile tramite maestose scalinate e dai quattro torrioni che la presidiano. 
Le vie interne sono lastricate in pietra e disposte a spina di pesce intorno al corso principale, e sono ricche di ristorantini, negozi d'artigianato, gioiellerie (anche di un certo pregio) dove è in vendita la filigrana d'argento o d'oro. Le case sono tutte curatissime, abbellite con fiori a ogni balcone. 
Si dice che proprio qui, a Korcula, sia nato Marco Polo.



La strada principale dell'isola è tutta interna. 
Gli accessi al mare via terra, effettivamente, non sono moltissimi, ma la qualità delle baie dove vi condurranno, non potrà che lasciarvi soddisfatti. 
Per accedere alle più belle, occorre seguire le indicazioni stradali che conducono su strade secondarie che, ripide, scendono la costa dell'isola fino al mare.

La baia più famosa è Puptnatska Luka.


La spiaggia è formata da ciottoli bianchi, levigati dal mare.
Il mare è così cristallino che le barche sembrano essere sospese nel vuoto.
I colori vanno dal blu profondo al turchese. E non lasciano niente da indovinare al fondale. L'acqua è gelida a causa di correnti sottomarine, ma, se riuscirete a vincere il freddo e immergervi con la maschera, troverete pesci, spugne, ricci e stelle marine in ogni dove.
Ma la cosa più bella, secondo me, è il verde che avvolge la baia. Colline ricoperte di boschi d'abete, incorniciano il mare più bello. 
L'ambiente boschivo corteggia il mare. L'ambiente marino si lascia ammirare. Diventano un tutt'uno. L'uno lo specchio dell'altro. Il bosco si riflette nell'acqua, l'acqua accoglie la vegetazione sulle sue sponde.





Un'altra imperdibile baia è Bacva.
Anche qui vi troverete ad affrontare una strada scoscesa. 
Finché vedrete il mare. D'improvviso. 
Stesso scenario: baia di ciottoli bianchi, circondata da boschi. Ma qui il colore dell'acqua è di un intensissimo verde smeraldo misto al turchese. Mai visto prima.


E, seguendo il sentiero che costeggia la baia, arriverete in un punto ancora più straordinario. Dove il mare sembra una piscina costruita dalla natura tra la roccia e il bosco.

Se avete fame, non c'è problema. Un minuscolo ristorantino a gestione familiare, si trova sorprendentemente a Bacva, perfettamente inserito, anche lui, nel contesto naturale. Arrostisce il pesce pescato il giorno stesso. Il menù varia a seconda di quello che regala madre natura. Finito il pescato, si chiude e si aspetta il giorno dopo. Un nuovo regalo del mare.


Avete già gli occhi pieni di verde e di blu? 
Sicuramente Puptnatska Luka e Bacva sono luoghi d'impatto.
Ma anche altrove, la costa, è notevole. Più bassa e accessibile. Seppure meno isolata.
Da Tri-Zala a Racisce troverete un mare altrettanto limpido.




E, dalla parte di Vela Luka, che sorge esattamente sul versante opposto alla città di Korcula, vi aspettano altre belle baie immerse nel verde.  




Se invece avete voglia un po' di "mondanità", vi consiglio il villaggio turistico di Princescap.
Amanti della tranquillità, non spaventatevi. Qui nulla è all'insegna del caos. Trattasi semplicemente di una penisola, collegata alla terraferma da una spiaggetta, dove si ha la possibilità (per chi vuole) di affittare un ombrellone e usufruire dei servizi doccia e di un bar-ristorante. Ci sono il diving center e qualche appartamento in affitto. Stop.
E se non volete nessun servizio, nessuno avrà niente in contrario se vi godrete lo stesso il luogo. Un sentierino fa il giro della piccola penisola.  Potete mangiare appoggiandovi su uno dei tavoli in pietra sotto i pini, o fare il bagno nelle acque cristalline. Nei punti rocciosi ci sono delle utili scalette che facilitano l'entrata in mare. 
Diciamo che, dopo tanti giorni passati in solitudine tra i boschi (dove pochi altri visitatori vi avranno tenuto compagnia) questa sarà una giornata diversa dal solito. Una piccola oasi di pace, semplicemente un pò più "organizzata".







Potrei parlarvi ancora e ancora, di Korcula. Ci sarebbero così tante cose da raccontare.
Nel tranquillo silenzio di questa isola-bosco. Quante emozioni! Quanta verità!
Ma non voglio annoiarvi. E soprattutto non voglio svelarvi tutto. Vi ho dato gli input. Forse ho lanciato la prima freccia di un colpo di fulmine che sarà intenso e duraturo. 
Sta a voi volerlo. 
Partite. 
Affrontate un viaggio lungo e stancante. 
Arrivate in questo paradiso. 
Vivetelo. Vivete la sua anima boscosa e selvaggia. Lasciatevi incantare da un mare che non prescinde dal bosco e da un bosco rasente al mare.
Sorprendetevi. 
E tornate appagati, con la luce radente ai boschi dell'isola che vi accompagna alla nave di ritorno, salutandovi, fino a che non sarete ormai lontani, nel mare più blu. 
Portando i boschi di Korcula nel cuore.




martedì 12 novembre 2013

Salina in letteratura


Amo Salina, penso si sia capito dai post che le ho dedicato. E a Salina ho ambientato anche un capitolo del mio libro "Il tempo della casa del pino". Sebbene alcuni elementi siano piegati alle esigenze narrative, le atmosfere a cui rimando sono esattamente quelle dell'isola. Per chi avesse voglia di leggerlo, riporto qui l'intero capitolo:


Non si è più fatto vedere in paese: deve aver saputo del mio ritorno.
Così ho preso il primo aliscafo della giornata. È abbastanza spazioso o forse è solo abbastanza vuoto a quest’ora della mattina. C’è una signora, con una cesta di vimini in braccio, che non presta attenzione al paesaggio; evidentemente è abituata alla tratta, forse ha dei parenti sull’isola a cui porta qualcosa che lì manca e in cambio le riempiono il paniere con le prelibatezze locali. C’è una compagnia di turisti nordici che probabilmente farà il giro di tutte le Eolie: sono impegnati a guardare le mappe delle isole e a scattare fotografie, commentandole tra loro.
Ci sono alcuni uomini dell’equipaggio che lavorano sull’aliscafo.
E ci sono io.
Un uomo mi guarda e mi mette in imbarazzo, volto lo sguardo e fingo di essere concentrata sulle onde del mare. Evidentemente capisce, perché smette di fissarmi e si allontana.
La destinazione è Salina. Una pazzia.
L’isola la conosco. Ci sono già stata, con lui, tanti anni fa.
E non ho mai dimenticato Lingua: sottile striscia di terra all’estremità sud dell’isola. Salina è formata da due vulcani che ne occupano tutta la superficie e rendono il territorio estremamente impervio. La strada è tutta curve e tornanti che si arrampicano intorno ai due coni vulcanici. Poi, improvvisa, appare questa lingua di terra piana e riposante, ai piedi del monte Porri. È una terra che sembra mandata da Dio dopo la fatica di tanta montagna. Un miraggio camminare in piano e finalmente senza fatica su quell’ultima striscia di terra dell’isola. Piccola, preziosissima, pianura di Salina. Ristoratrice e benevola.
Qui sorge la contrada di Lingua – appunto – con le case, che si possono contare sulla punta delle dita, delle persone che vivono a ridosso del vulcano.
Amo questo posto ed è qui che sto cercando Salvo.

Sono sbarcata a Santa Marina di Salina e ho chiesto di lui. Ho preso un caffè al bar, tra pochi turisti e molti uomini isolani. Non è stato difficile avere notizie: è uno dei pochi pescatori. Sembra un paradosso, ma in un’isola in mezzo al mare, dove il pesce non mancherebbe, gli uomini non si dedicano alla pesca. C’è solo una pescheria e qualche pescatore che la rifornisce e vende anche ai turisti al porto, la mattina. Uno di questi è Salvo. Gli altri sono agricoltori, pastori e, soprattutto, produttori agricoli di Malvasia e capperi. L’odore dell’isola è il loro.
Ho domandato al barista, a bassa voce, se conoscesse Salvo Guarniero, e lui, ad alta voce, mi ha chiesto: «Chi? ‘U piscaturi o ‘u fìgghiu di Daniele?».
«Il pescatore.»
E le voci sovrapposte degli uomini del bar mi hanno informato: «A Lingua sta». Qualcuno ha aggiunto: «Picchì ‘u cerca?». 
Che sono sua cugina, questo ho detto; la cugina di Roma in vacanza a Salina e che lo volevo salutare. La scusa più banale e antica del mondo. Non ci ha creduto nessuno e mi è parso di sentire le loro voci, un po’ compiaciute, arrivare dritte a Salvo: «Ti facisti l’amante? Salvuzzo... ti cerca tua “cugina” romana».

Non me la sento di andare direttamente a Lingua, sono venuta fin qui quasi senza pensare e ora farei di tutto per rimandare l’incontro con Salvo. Affitto un motorino al porto, da un signore con i baffi che mi fa lo sconto perché lo prendo solo per qualche ora. È abituato ai turisti, pochi a dire la verità, che però lo affittano per tutto il tempo del loro soggiorno a Salina, dopo essersi resi conto che andare a piedi è praticamente impossibile, e il servizio di bus che collega alle spiagge è molto lento a causa dei tornanti che si inerpicano sulla montagna e costringono a continue frenate. Il motorino è il mezzo più idoneo per muoversi, sebbene anche con questo occorra stare attenti alle curve e non esagerare in velocità. È un’isola difficile. È selvaggia, verdissima e affascinante, ma dura come le sue rocce vulcaniche affilate.
È l’isola per Salvo.

Allo strapiombo di Pollara il vento e il senso di libertà mi invadono. È un panorama come pochi ce ne sono al mondo. La montagna verde, fiera, protegge la valle circondata dalle scogliere.
Non posso fare a meno di immaginare Salvo qui, nei tramonti di questi anni, solo e accovacciato tra i resti delle case scavate nella roccia dai pescatori. Non si può andare da nessun’altra parte poi: l’isola finisce a strapiombo sul mare. Eppure tutto quello di cui si ha bisogno pare essere qui.
Scendo alla scogliera.
Immagino Salvo disteso su questa pietra, con lo sguardo scontroso a sfidare il cielo, masticando un filo d’erba.
Salvo a maledire la vita e benedire il mare.
Piango.
Le lacrime vengono portate via dal vento, libere anch’esse, finalmente.
Come ho potuto? Lasciare Salvo. Dimenticare tutto. Sposare Fabio. Diventare una donna fredda e formale. Come?
Due signore messinesi mi chiedono un’informazione turistica sull’isola, prima di rendersi conto, imbarazzate, delle mie lacrime. Le invento completamente, racconto che il santuario al centro dell’isola era un carcere.
Forse è esattamente ciò che sono stata anch’io.
Poi mi decido, recupero il motorino che ho lasciato lungo la strada principale, all’imbocco del sentiero di pietra che porta alla scogliera.

Quando arrivo a Lingua, la luce è quella calda della fine di una lunga giornata d’estate. Una luce ancora forte ma già aranciata e morbida, disegna meglio il contorno delle cose e preannuncia il tramonto.
Questa luce è un incanto sul piccolo villaggio abitato, accarezza la montagna verdissima alle spalle e la fa sembrare più amica e vicina. Accentua il rosso, il nero e l’arancio delle pietre laviche arrotondate dal mare che formano la spiaggia, colora i riflessi del piccolo lago usato per estrarre il sale, evidenzia il rosa del faro guardiano dell’isola.
Alcune barche dei pescatori: rosse, blu e gialle, sono abbandonate sulla baia, tra le miriadi di ciottoli lavici. Dei bambini del luogo, a torso nudo abbronzato dal sole, completamente scalzi, spettinati e con le braccia graffiate da giochi spericolati, stanno inscenando un combattimento salendo e scendendo dalla più grande di queste barche. Il più scatenato è biondo, ha i capelli lisci e lunghi che gli coprono il viso, e li scansa con un gesto veloce del braccio, mentre corre senza fermarsi per vincere la sua battaglia.
Mi viene da pensare che assomigli a Salvo da piccolo, anche se il bambino è biondo e lui scuro. È l’essere selvaggio, l’essere parte di questo paesaggio, che mi suggerisce il paragone. Per un momento penso che possa essere veramente suo figlio, ma è impossibile. Questo bambino avrà dieci anni, è troppo grande per essere il figlio di Salvo. Solo se fosse nostro potrebbe avere quest’età, se dieci anni fa...
La ragazza del bar - ristorante, l’unico esistente a Lingua, si sbraccia dal muretto che separa la strada cementata dalle pietre della spiaggia, e chiama ad alta voce il bambino, gesticolando per essere certa di essere vista: «Albertoooo».
Poi lo chiama più forte perché lui fa finta di non averla sentita. È preso dalla foga del gioco e non gli interessa che il sole stia calando, che la luce si sia fatta più rossa e radente, e sia ora di rientrare a casa.
La ragazza è bella: ha gli occhi chiari e i capelli lunghi, castani e lucenti; è un po’ in carne ma non certamente grassa, semmai robusta e sana. Indossa il grembiule con l’insegna del bar. Dev’essere la proprietaria e il bambino suo figlio o, forse, suo fratello.
Incrocia le braccia e sbuffa. La scena, con ogni probabilità, si ripeterà molto frequentemente: i bambini sono abituati a essere indipendenti, giocano fuori tutti insieme mentre la famiglia lavora, e la sera è difficile richiamarli all’ordine, convincerli a rientrare e che la battaglia che stanno conducendo sia solo un gioco, che non sia reale e, quindi, possa essere interrotta.
«Albertoooo» continua a gridare la ragazza. «Daiii, è oraaa.»
Alberto questa volta alza il braccio, le fa segno di sì, che ha capito, ma di aspettare un momento: deve finire il gioco. Ha catturato tutti i nemici, è rimasto soltanto il re rivale da affrontare. Un minuto ancora e avrà vinto.
«Va beneee, ma poi torni e bastaaa.»
La ragazza si siede sul muretto ad aspettare, nota che la sto guardando e si sente in dovere di spiegare, o forse vuole solo condividere il tempo dell’attesa: «Questi ragazzi! Richiamarli a casa è sempre un problema», e sospira pensando anche a chissà quante altre cose troppe faticose nella sua vita.
Le sorrido. Sicuramente conosce Salvo.
Probabilmente è amica della moglie, potrei addirittura pensare che fosse lei, se non sapessi che loro non hanno un locale ma vivono di pesca.
«Già» le rispondo. «Devono divertirsi molto a giocare liberi.»
«Sì, sì, ma selvaggi ci crescono. Poi d’inverno a scuola non ci vogliono andare, abituati a stare sempre fuori.»
«È Suo figlio?» le domando facendo cenno al bambino biondo, Alberto.
«No, no, io ancora non sono maritata. Mio nipote è: figlio di mia sorella. Lo guardo io perché lei è incinta del secondo e deve stare a letto.»
«Ah.»
«E Lei ha figli?»
È la seconda persona da quando sono qui che mi fa questa domanda.
«No, non ancora.» Aggiungo una mezza verità rassicurante: «Mi piacerebbe presto. Mi sono incantata a guardare questi ragazzini giocare».
«Sì, ma selvaggi sono questi.»
Scuote la testa e ricomincia a chiamare: «Albertoooo». «Mi scusi ma devo riportarlo subito a casa.»
Capisco che considera conclusa la conversazione. Devo approfittare di questo momento per chiederlo. Prima che Alberto si decida a tornare e spariscano insieme nel bar.
«Senta, sono qui in vacanza con mio marito e stasera vorremmo mangiare del pesce fresco. Sa da chi possiamo comprarlo? Se qualcuno qui lo vende?» le chiedo mentendo.
«Qui a Lingua c’è un pescatore, è uscito in barca nel primo pomeriggio e dovrebbe tornare tra poco, se ha la pazienza di aspettare. Sennò c’è la pescheria a Santa Marina, ma chiude per le otto.»
«Grazie. E dove approda il pescatore solitamente?»
«Laggiù al molo lo può aspettare. Dieci minuti al massimo, anzi: in ritardo è oggi. Ci porta il pesce per il ristorante, sa, freschissimo è, può stare tranquilla», e indica uno scivolo per le barche accanto al faro rosa.
Sulla spiaggia è rimasta ormai solo una coppia di mezza età, lei legge il giornale e lui è sdraiato come se il sole fosse ancora alto. Sono turisti e, con ogni probabilità, non mi noteranno nemmeno.
L’aria si sta facendo fresca.
Alberto finalmente raggiunge la zia, lei lo copre con un asciugamano bianco pulito: «Sei tutto sudato, guardati! E pieno di graffi peggio di ieri, sei». Gli mette una mano sulla testa, perché ora è finalmente sotto la sua protezione, e si dirigono insieme verso il ristorante.
«Arrivederci» mi saluta distrattamente, mentre il bambino cattura la sua attenzione, raccontando qualcosa circa il punteggio ottenuto al gioco e vantando la sua squadra rispetto a quella capitanata da Calogero.

Guardo il mare.
Ora che i bambini, uno dopo l’altro, hanno seguito Alberto e sono andati via; ora che il giorno sta veramente finendo e la barca, animata e piena di voci fino a poco fa, giace sulla spiaggia solitaria; ora, la mia unica attenzione è per quella che verrà dal mare. Una barchetta che avvisto in lontananza, verso costa, sotto i riflessi dell’ultimo sole. Non riesco a distinguere se sia lui, però vedo la sagoma di un solo uomo. Questo mi tranquillizza: se fosse stato con il suocero o semplicemente con un amico, sarebbe stato complicato controllare le mie emozioni e la sua sorpresa.
La barca si avvicina.
Il profilo dell’uomo mi è familiare. Ha i capelli fino alle spalle, ondulati; sta tirando su le ultime reti e guarda il cielo.
È lui.
Voglio guardarlo prima che veda me, capire se è cambiato molto, studiare i suoi occhi per come sono tutti i giorni, prima che mi vedano e adattino la loro espressione alla circostanza.
È ancora bellissimo, più maturo però. Ha un po’ di capelli bianchi e la schiena più curva. L’espressione è più seria, quasi provata dalla vita.
Salvo.
Qui a pochi passi da me. Qui dove lui è tutte le sere, e io non sono mai. Sto spiando la sua vita.
È abituato a essere solo lui e il mare. Trascina la barca in secco, prende i secchi con il pesce, sistema le reti e si pulisce le mani con l’acqua di una bottiglia e mezzo limone; si siede su di un’asse di legno in spiaggia, manda i capelli all’indietro e accende una sigaretta; guarda il sole tramontare di fronte a lui, mentre gode un po’ di riposo dopo la giornata di lavoro.
Poi, uno sguardo che attraversa il tempo congiunge il passato a questo presente assurdo.
Mi riconosce.
A volte le cose finite non dovrebbero ripetersi, perché può essere che abbiano senso soltanto nel passato: lo sguardo è per un attimo quello di due amanti, quelli di una volta; uno sguardo che ha attraversato il tempo per arrivare fin qui, durando però un istante soltanto.
 Poi tutto si fa duro e attuale. Mi fissa con stupore, con sofferenza e, infine, con crudeltà. Volta le spalle e se ne va verso il mare scuotendo la testa.
Lo rincorro: «Salvo...».
Sta lanciando pietre nell’acqua e si guarda intorno per essere certo che non ci sia nessuno a vederci. Il cuore mi batte innegabilmente, ma lo misuro con la realtà: ora che ce l’ho di fronte, mi chiedo se sia valsa la pena pensare a lui per dieci anni, e se questo confronto tra uomini così diversi non abbia rovinato anche il matrimonio con Fabio.
«Volevo solo salutarti…»
«Maledizione» dice soltanto, mentre continua a lanciare le pietre senza guardarmi.
«Senza rancore, dai. Sono cose senza senso ormai…» dico per rassicurarlo. Credo abbia paura che io pretenda di far tornare tutto come prima semplicemente con la mia presenza qui, infatti aggiungo: «So che ti sei sistemato e sei sposato, sono felice per te».
«Senza senso sei tu! Che ne sai? Ho sposato me’ mugghièri ppi dimenticari a tia.»
E tutto prende senso con questa frase, che lo voglia o no.
«Salvo, non immaginavo…»
«Che non immaginavi? E ora pure ccà vinìsti? Vattìnni, stronza!»
«Non pensavo…» continuo a ripetere di non sapere, quando invece so.
«Dai: affrontiamoci, superiamo insieme la cosa una volta per tutte» propongo, e mentre lo dico mi sento ridicola quanto quei manuali che vorrebbero insegnare alle persone a superare la rabbia, l’amore e forse anche la vita stessa.
«Le stesse minchiate di sempre dici.»
Tira l’ultima pietra.
Ora che si è sfogato viene la parte più pericolosa.
Ora che la rabbia è scemata, si volta e mi guarda dritto negli occhi.
Ora può succedere tutto.