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martedì 13 novembre 2018

L'energia del magico borgo di Calcata

 

La regione Lazio è ricca di luoghi affascinanti, più o meno conosciuti, dove spesso, a paesi caratteristici si combinano elementi di grande valore naturale. Sicuramente merita una visita, su tutti, il piccolo borgo medievale di Calcata, in provincia di Viterbo, immerso nella splendida valle del fiume Treja. Un luogo unico nel suo genere, che non si dimentica facilmente. Partiamo dal primo impatto: quando il paese appare al visitatore tutto arroccato sulla sua montagna di tufo, che emerge alta in mezzo alla valle completamente ricoperta da boschi selvaggi. Già questo panorama ha qualcosa di particolare e atipico. Le case sembrano nascere dalla stessa montagna, in una continuità di colore, come se per magia la roccia improvvisamente si trasformasse essa stessa, modellandosi nella forma delle case. Stabilire i confini, dove siano le une e dove l’altra, è spesso complicato dalla fortissima coesione estetica ed emotiva tra case e roccia. Calcata è la sua stessa montagna che la sorregge e la protegge, offrendola come fiero trofeo, alzato sul podio della valle boschiva e misteriosa che la circonda. E’ un’isola che emerge silenziosa nel mare di alberi, dal fortissimo impatto emotivo. Promessa di un luogo che difficilmente è classificabile in una precisa categoria. 
Partiamo dal presupposto che fino agli anni 60, Calcata era un borgo quasi dimenticato, ormai spopolato e destinato a scomparire. Poi le cose andarono diversamente: nel borgo iniziarono a trasferirsi artisti, artigiani e hippie desiderosi di fuggire al caos dell’evoluzione del mondo contemporaneo, sempre più accelerato. Fecero di Calcata la loro dimora fuori dal mondo e dal tempo. Un luogo scelto, elitario, dove potersi dedicare all’arte in una dimensione totalitaria. Presero ad abitare le case, a trasformare le cantine in botteghe e gallerie d’arte, ad attirare curiosi che desideravano vedere con i propri occhi “il borgo degli artisti”, dove questi vivevano una vita parallela e contraria a quella del resto del mondo. Una realtà creata essa stessa dalla loro arte; un luogo inventato, dove tutt’oggi ognuno degli abitanti dà vita al proprio estro creativo personale, e il luogo è poi l’atipica somma di quello di tutti.

Porta d'ingresso a Calcata.
A Calcata si entra da un’unica porta di accesso tra le sue mura e poi una breve salita conduce direttamente alla piazza cuore del piccolissimo borgo. Più che una porta, è un vero e proprio varco che segna il passaggio dal mondo e dal tempo normale, ad una dimensione surreale e magica. Si respira mistero entrando. Si rallenta il passo, perché qualcosa di particolare, un’atmosfera che percepiamo subito mistica, ci allerta i sensi. Respiriamo il luogo. Rallentiamo automaticamente anche i battiti del cuore. Ci dobbiamo fermare a capire cosa succede, cos’ha, questo luogo, di tanto differente dagli altri, da farci osservare intorno con sguardo quasi reverenziale, alla ricerca di quei particolari che ci possano aiutare a decodificare il mistero che sentiamo nascere dentro. I sensi si amplificano, subito, fin dal primo istante che si entra nelle mura; ogni dettaglio ci fa percepire che non siamo in un luogo qualunque. Ci arrivano fortissime delle sensazioni che non sappiamo spiegare, ma che ci fanno intuire ci sia un significato profondissimo in ciò che guardiamo con occhi aperti e i sensi allertati. 
C’è chi dice che Calcata sia anche il “paese delle streghe”, che nelle cantine ci siano testimonianze segrete di un passato esoterico e che riti magici si continuino a fare. Si racconta che ai tempo dei Falisci, il punto dove sorge Calcata fosse centro di energie del sottosuolo e occultismo. E che tuttora, nelle notti di forte vento, i vicoli del borgo sembrino cantare e che quello sia il canto delle streghe.
E poi c’è una leggenda, di origine religiosa, secondo la quale proprio a Calcata è custodito il prepuzio di Gesù, tagliato al suo ottavo giorno di vita, conservato a San Giovanni in Laterano fino al Sacco di Roma, quando fu trafugato da un lanzichenecco, poi imprigionato a Calcata. Il prepuzio sarebbe stato ritrovato nella sua cella nel 1557. La leggenda è riportata anche nell’Ulisse di Joyce e nel Vangelo secondo Gesù Cristo di Saramago.
Non sarò certo io a stabilire a cosa attribuire la sensazione che si prova entrando a Calcata, sicuramente c’è un’energia fortissima, palpabile, che scuote la mente di chi sa sentire. Non so se sia legata alla magia o forse alla stessa potenza dell’arte, ma sicuramente accade qualcosa di surreale, entrando nel borgo, attraversando quella porta – simbolo, ricoperta di muschio. Inutile specificare che, una volta dentro il borgo, misteriosamente i cellulari non prendono più.
L’architettura di Calcata è qualcosa di assolutamente atipico per vari motivi. Intanto tutto si sviluppa intorno alla piazza principale, con la chiesa, il castello, dei curiosi troni di pietra e un via vai di personaggi particolari e botteghe artigiane e localini dall’arredamento esotico ed eccentrico. Da qui, intorno, una serie di piccole viuzze si diramano e finiscono tutte a precipizio sulla montagna di tufo, con panorami sconfinati e memorabili sulla valle incontaminata. Non si va da nessuna parte, a Calcata. Tutte le strade portano a quel precipizio di orribile bellezza. Passaggi stretti, vicoli, cortili interni. Tutto conduce qui. Al vuoto che la circonda. E proprio affacciate sul vuoto nascono, avvinghiate alla roccia, case e terrazzini.

Casa scavata nella roccia e affacciata sullo strapiombo.

Via che termina sullo strapiombo.
E poi tutto è condito da un arredamento improbabile, senza alcuna coerenza né regola. Non ci sono regole, a Calcata. La normalità è l’imprevedibile. E così spuntano: panchine giganti fatte da tronchi; lampadari antichi appesi a lampioni; portoni dalle forme strane; pezzi di mosaico che così come improvvisamente nascono così senza un perché si interrompono; curiosi bazar; una finestra di un rosso sgargiante in una casa grigia; pantaloni appesi al muro di casa; quadri buttati tra attrezzi da lavoro; scale rivestite da perline ma soltanto in parte, senza coerenza di inizio e di fine; specchietti come amuleti attaccati alle finestre. In una casualità che solo nell’insieme trova senso. L’unica regola, quella che dà unità al tutto, è che non ci sono regole.

Particolare portone.

Lampadario appeso a lampione.

Scala decorata.












Finestra rossa.

E poi ci sono ancora i numerosissimi richiami all’India, ricordi dei viaggi che gli artisti degli anni 60 facevano in questo continente e poi venivano raccontati, a Calcata, intorno ai fuochi accesi nella piazza. E ancora oggi, girando tra i vicoli del borgo, si sente raccontare di viaggi e di musica e di letteratura e d’arte. Il clima culturale, forse un po’ chiuso in sé stesso, nelle visioni di ciascun artista, si nutre però di racconti di terre lontane. Lontane poi forse solo fisicamente, perché Calcata è al di fuori dallo spazio e dal tempo, potrebbe essere ovunque e da nessuna parte. Nella fantasia si può facilmente immaginarla staccarsi dalla terra e prendere il volo, così tutta insieme alla sua montagna di tufo, e vagare nell’aria. La maggior parte delle case, a Calcata, ha grotte sotterranee spesso collegate tra loro da cunicoli. In queste grotte, ristrutturate, sono nati locali particolari e botteghe d’arte; altre sono rimaste come magazzini. Qualunque ne sia l’uso, spiarne l’interno è un’esperienza unica: si trovano spesso affastellate cose di ogni genere, mischiate tra loro. Improbabili. Una antica armatura completa, troneggia dentro una bottega artigiana. 

Vasca con larve di pietra che escono.
Pappagalli appesi ad un arco.














E ancora si possono trovare case scavate nel tufo; vasche da cui escono enormi larve di pietra; opere d'arte che adornano muri scrostati e decadenti; pappagalli colorati che stridono con l’arco di pietra sporca su cui sono appesi da chissà quanto tempo. 
La decadenza è un altro aspetto che a Calcata si rincorre tra i vicoli, dove non è raro imbattersi in tavolini arrugginiti, oggetti rotti, cantine abbandonate, scope e altri attrezzi lasciati a caso. In un contrasto forse non casuale, ma costruito appositamente per non farci troppo abituare alla bellezza del posto, quasi a volerci ricordare che è tutto di passaggio, che il tempo cancellerà ogni cosa. E così, accanto a curati vasi di fiori, ecco giocattoli rotti, tavolini arrugginiti, testimoni di un tempo che non esiste più, di uno scorrere che è destinato a portarsi via la bellezza e il tempo presente e noi stessi.
Un cartellone di un festival hippie tenutosi nel maggio scorso, ancora per strada, con due sedie abbandonate accanto, a raccontare di una musica viva, ma che ora non c’è. Testimonianza del tempo che corrompe tutte le cose. Strade vinte dal muschio, panchine fatte da tronchi rotti, intonaco scrostato. Il tempo passato sotto i nostri occhi, visibile. Qui non restaurato dal nuovo, forse affinché sia vivo insieme al presente, suggerendo un’unica continuità temporale.

Strada decadente.
Cartellone festival hippie in una strada tipica.

E ancora: il vero e il falso che si mescolano, a Calcata. Come nell’arte stessa, che trae dal reale ma poi non lo è. E allora ecco i fiori finti spesso insieme a quelli veri, animali di legno o bambole affacciate alle finestre come fossero bambini veri, creature di stoffa, pupazzi di cartapesta, che sostituiscono la figura umana. In una veglia perenne, in un’accoglienza continua del visitatore, in un sorriso che, almeno nella finzione, non è intaccato dal dolore. Il mondo delle illusioni fantastiche. Travestimenti, costumi. Dove non ha più senso alcuno distinguere il vero dal falso. Importante è solo il significato che rappresenta. 

Bottega di pupazzi in cartapesta.

Bambole affacciate ad una finestra.
Insegna di un teatrino.

L’insegna di un teatrino ambulante, attaccata a un muro. Perché è tutto irreale: lo spettacolo è annunciato ancora da quelle parole che rimangono immutabili nel tempo, ma dietro ormai nessun personaggio più si muove, nessuna rappresentazione va più in scena. E senza l’irrealtà, resta la nuda verità di un muro, irreale anch’essa.
E quanto ha affascinato Calcata nel tempo! Set cinematografico di numerosi film come "Amici miei" e del video di “Una storia sbagliata” di De André. Amata, criticata, compresa o meno, Calcata non può lasciare indifferenti.

Una tipica vietta di Calcata.
Installazione artistica su muro.

Ma qual è, dunque, l’anima di Calcata? E’ un’anima di follia, di arte, di magia, di mistero, di natura, di assurdo. E soprattutto di energia. Perché è questa che emana da ogni pietra, in ogni angolo e in ogni vicolo di questo borgo. Un’energia viva, antica e profondissima, che mescola l’arte con la natura, la verità con la finzione, il presente e il passato in un nuovo non - tempo indefinito, il bello con il triste, la magia e l’esoterismo. Un’energia che trasuda cultura, mistero, racconti lontani e vicini. Un’energia che ti fa rallentare il cuore, respirare profondamente, in un attimo comprendere il senso stesso della Terra, l’attimo dopo dimenticarlo perché da umani non è sostenibile una tale, fortissima, percezione. C’è un ordine, nel caos atipico di Calcata: è l’energia vitale che si concentra in alcuni luoghi della Terra. Calcata è uno di questi, preziosissimo punto di raccordo.
E quando cala la sera, e si accendono le luci degli strambi lampadari e le insegne degli affascinanti locali senza senso, e le streghe sembrano veramente camminare nelle ombre dei vicoli, allora provate a percorrere una qualsiasi stradina che vi porterà allo strapiombo, affacciato sulla valle del Treja. Qui, nel silenzio assordante nella notte, attaccati all’ultimo sperone di roccia prima del vuoto, con l’orizzonte ancora infuocato dall’arancione del tramonto, la luna già alta nel cielo, il nero della notte che si è già preso gli alberi dello sterminato bosco sotto di voi... qui sentirete l’acqua del fiume a valle scorrere, creare una musica sottile, indovinerete le ombre della notte e percepirete il respiro della Terra. 
E sarete felici di voi stessi, perché avete occhi che sanno vedere e un’anima che sa sentire.





venerdì 12 ottobre 2018

Nel cuore delle Madonie: la fruibilità di Piano Zucchi


Nell'entroterra siciliano, nel comune di Isnello, a mille metri sul livello del mare e a 35 km da Cefalù, abita un luogo incantevole, vestito di prati e di faggi, pini, querce, abeti, sambuchi e lecci. Siamo a Piano Zucchi, cuore vivo del Parco delle Madonie. Un pianoro circondato dalle montagne, a cui si arriva dopo che la strada si inerpica con tornanti sempre più incalzanti, tra boschi e odori di resine e muschi e umido fresco. Un mondo intimo, vero, in cui ci si addentra quasi magicamente, abbandonati il clamore costiero, l'afa, il brusio dei bagnanti di una domenica di fine estate. Ogni curva di questa strada, è un metro in più dentro la verità delle montagne. Il refrigerio di un'aria genuina, respirabile, segna il passaggio tra i due mondi. E la luce. Lasciata alla costa quella accecante, fatta di raggi riflessi e moltiplicati dal mare, qui la luce è tutta diversa. Divisa dal bosco che la assorbe per primo e ce la restituisce, parsimonioso e saggio, in morbidi raggi  che lo attraversano. Una luce filtrata dagli alberi, rilassata, arresa all'ombra refrigerante dei boschi. 
E così, continuando a salire, il panorama muta e da collinare si fa sempre più montano e netto. Con il carattere preciso e un po' duro delle montagne. Non è raro trovare animali che pascolano ai bordi della strada: mucche, cavalli, pecore. Boschi e roccia. Aria pura e profumata di natura. Un crescendo, fino ad arrivare al Piano, tregua dopo tanto salire. Pausa per la nostra anima e riposo per il guidatore. Luogo dentro il luogo, fatto appositamente da Madre Natura per permetterci di sostare e, nell'attesa di ripartire, interiorizzare la maestosità di queste montagne. Viverle.

Piano Zucchi.

La piccola piana è accogliente. Fruibile. Protetta dalle montagne circostanti come uno scrigno che racchiude prezioso tesoro. Noi vi siamo dentro. 
C’è un bel prato erboso a fine estate, qui. E’ esattamente il prato dove correre felici della nostra infanzia. Rimanda immediatamente l’immaginario alle giornate spensierate, senza fine, alle corse con il vento tra i capelli e una risata genuina nata su bocca sincera. In altri tempi e in altri luoghi. Non importa più. L’entusiamo ci invade anche adesso. Per questo spazio tutto nostro. Libero. Ampio, ma limitato. Fatto a nostra misura da natura generosa. Creatore di fantasie d’infanzia e di adulto benessere. Quanta perfezione in un prato erboso, circondato dal bosco! Essere qui è farne parte. Del prato, delle Madonie, della natura tutta. L’armonia che sentiamo crescere dentro è la sua. Ci invade, ci rasserena, ci corteggia. Invita alla pace. Ma non certo alla staticità. Ed è così, con il cuore tranquillo e un entusiasmo sincero, che esploriamo questo luogo incantevole. Il sottobosco intorno alla piana è curato. Giochiamo tra i tronchi degli alberi, allegri, osserviamo il prato da lì, spettatori di una magia che già accade nella nostra mente. Ritrovo di lupi, di fate o di streghe. Questo prato. Teatro di favole antiche; la radura tra il bosco è piazza di creature magiche, di segreti e incantesimi. Rivivono ora, esattamente mentre le immaginiamo. Animano il bel prato di Piano Zucchi, che diventa in un attimo, e per un solo lunghissimo momento, quello di antiche leggende ammalianti. 

Funghi sul prato della piana.
Non è più propriamente estate, qui. In montagna. Ma non è ancora autunno, secondo il tempo astronomico.
Il passaggio tra le due stagioni è evidente sotto i nostri occhi. Calpestiamo una terra dove le prime piogge sono state ostetriche di funghi di ogni tipo, che tingono l’ambiente dei colori d’autunno. Arancione, rosso, marrone. Creature spugnose, spuntate orgogliosamente tra l’erba verde e le foglie già secche. In una eterna lotta tra la vita e la morte. In una composizione perfetta, creata dalla natura. Con foglie e ricami di terra soltanto.
Orchidea selvatica.
E poi un’orchidea selvatica, improvvisa, attaccata tenacemente all’estate. Che ricorda, con delicata e spontanea bellezza, che invece in autunno ancora non siamo. Accanto, una pianta invidiosa vorrebbe imitarne la forma, ma non ha grazia e colore.
Ci emoziona la scoperta, metro dopo metro, di così tanta vita nel terreno. La terra fertile ci regala i suoi prodotti. Con stupore fanciullesco e animo lieve li scoviamo tra foglie e fili d'erba. Sono i fiori delicati di una favola bella. Sono i funghi attraenti e traditori: case di gnomi, cerchi di streghe, veleno e magia di un bruco che fuma.

Funghi.
Funghi.

L’anima di questo luogo è la genuinità di un prato di montagna, di una semplice perfetta bellezza. E' la tranquillità di un luogo fuori dal mondo che corre e dal tempo comune. Dove il passaggio delle stagioni non è così scontato e doloroso; dove sembra possibile vivere per sempre. La sua anima è protezione, intimità, benessere. Familiarità. E’ anima fatta di prato, di aria, di leggerezza, del profilo delle montagne che lo racchiudono. Di odori di natura purissima, di un ruscello che scorre lontano. Di chiaroscuri di luce, disegnati sul prato da rami di alberi mossi dal vento. Della fruibilità di un luogo, umanamente accessibile, vivibile nel pieno dei sensi. Di storie inventate o reali, racconti su prato verdissimo.

Nebbia a Piano Zucchi.


Ad un certo punto del giorno, sale la nebbia, qui. Improvvisa e leggera, copre gli abeti come scialle di seta. Nasconde, la nebbia. Eppure rivela. Permette di concentrarci solo su quello che è vicino a noi. Non esiste più lo spazio circostante. Solo noi e la sagoma, essenziale, delle cose che ci sono più prossime. Ci permette di conoscerne la forma pura, mondata dai colori, dalle proporzioni. Di conoscere meglio noi stessi. Tutto il resto non esiste più. Se lo pensiamo, lo possiamo inventare come vogliamo. Permette di inventarci il mondo, la nebbia. Apre alle possibilità. 
Affascinante ed elegante, così come viene, altrettanto velocemente poi si dipana. E ci lascia  al respiro del mondo reale, che ora guardiamo con occhi nuovi.


E anche quando, qui, a Piano Zucchi, vi coglierà un temporale improvviso, estivo, non avrete alcun timore né fretta. Al riparo dentro la macchina, l’anima si distende totalmente, ascolta la pioggia, sottile tra gli abeti, e la magia diventa privilegio che si rivela a noi soltanto. Noi che questo luogo lo viviamo anche con la pioggia, quando sono andate via anche le guardie forestali più fedeli. Ora è totalmente nostro, con tutti i suoi segreti di bosco. Rivelato. Nostro rifugio per l’anima. Rimarrà qualcosa di noi qui, in eterno…




venerdì 3 gennaio 2014

Cava Grande del Cassibile: lo spirito dell'acqua


Siamo ancora una volta in Sicilia. Questa volta nella parte sud - orientale. In provincia di Avola, per la precisione. Alla scoperta di uno dei luoghi più affascinanti e meno conosciuti della regione: Cava Grande del Cassibile.
Aleggia un'aria di mistero, intorno a questo luogo. Qualcuno me ne aveva parlato: "laghetti, vegetazione, cascate", ma senza riuscire a dirmi il nome preciso né darmi indicazioni su come raggiungerlo, tanto che il luogo sembrava uscito solo dalla vaga fantasia che ammanta ricordi infantili o che ingrassa i vari "sentito dire".
Poi, all'improvviso, vicino Siracusa, ecco l'illuminazione: un cartellone con le riserve naturali della provincia, e tra essi Cava Grande. Ricollego immediatamente alla descrizione fattami anni prima e, finalmente, ho un nome da cercare sulle mappe. In realtà non è che il primo passo, poiché precise indicazioni non ve ne sono. Dalla cittadina di Avola occorre prendere la strada che sale in montagna, verso il Fiume Cassibile. Percorrendola, vi accorgerete di allontanarvi sempre di più dalla costa per inoltrarvi nell'entroterra a tratti arido e a tratti maggiormente boscoso. Capirete di essere arrivati nel luogo giusto quando, davanti ai vostri occhi, spunterà dal nulla una contradina fatta di: un bar - ristorante, un parcheggio per le automobili, un bagno con servizio docce e poco altro. 
A questo punto vi chiederete: "E i laghetti? Dove sono?". 
Osservate bene il panorama: siete in cima a una montagna, proprio sul suo ciglio, e sotto di voi si apre una valle profonda circa 300 metri. Lì in fondo, a valle, riuscite a distinguere quei puntini blu? Ecco: sono loro i laghetti che state cercando!


Non ve lo nascondo: scendere è dura e risalire è ancora peggio. Fatelo solo se siete allenati, con sufficienti riserve idriche, nelle ore meno calde della giornate e con scarpe adatte. Dovrete affrontare un sentiero pietroso, in alcuni punti abbastanza dissestato, che, attraverso tornanti più o meno ripidi, scende il costone della montagna fino ad arrivare a valle. All'entrata della Riserva, ossia all'inizio del percorso, vi verrà consegnato un numero che vi idenficherà nel corso della giornata e dovrete riconsegnare quando risalirete. Serve per controllare che, a sera, siano risaliti tutti i visitatori, sia perché è vietato soggiornare all'interno della Riserva, sia perché occorre verificare l'incolumità di tutti (infatti vi verrà dato il segnale di obbligo di risalita con un certo margine rispetto all'orario del tramonto, per lasciare spazio a eventuali emergenze).
Non voglio spaventarvi, ma è necessaria la massima consapevolezza: Cava Grande non è per tutti. Ma, se ve la sentite, non abbiate paura: sarà faticoso, ma vi assicuro che ne varrà la pena. 
Una volta terminato il sentiero, vi troverete davanti a un bivio: due cartelli di legno, a forma di freccia, indicheranno rispettivamente i laghetti principali e quelli secondari. Informatevi prima di decidere da che parte andare, perché non sempre sono entrambi accessibili per problemi di salvaguardia naturalistica. Se possibile, secondo me vanno visti entrambi. 
L'impressione che se ne ha, non so se perché dopo tanta fatica, è di essere arrivati nell'Eden come ve lo siete sempre immaginati: un luogo perfetto, tanto perfetto da essere sorprendente. Con l'acqua fresca e cristallina a ristorarvi, il cinguettio degli uccellini, la pace di una natura incontaminata a coccolarvi l'anima affaticata. I laghi sono il premio per il vostro sforzo. Sono metafora della ricompensa che attende, a chi crede, dopo le fatiche affrontate in vita.

I laghetti piccoli sono gioiellini blu che scorrono tra le montagne, gorgogliando allegramente, e formano piacevoli rivoli e cascatelle. In alcune pozze è possibile sdraiarsi per un idromassaggio naturale, ove la corrente non è molto forte ed è facile trovare appiglio tra le rocce. Diciamo che sono meno d'impatto rispetto ai laghi grandi, ma più riposanti e a misura d'uomo. Potrete passeggiare sulla loro riva e prendere confidenza con il piccolo paradiso in cui siete inaspettatamente arrivati. Per questo motivo vi consiglio di visitarli per primi.


I laghi grandi, invece, sono maestosi. E' innegabile. Iniziano esattamente come quelli piccoli: con piccoli rivoli di un intenso color verde smeraldo.


Ma ben presto ci si accorge che confluiscono in laghi maggiori, alimentati da una cascata grande e altre più piccole, attorniati da roccia calcarea levigata a strati dall'acqua nel corso dei millenni. Si formano delle vere e proprie piscine naturali, una di seguito all'altra.

Qui si può tranquillamente nuotare: i laghi sono balneabili. L'acqua è pulitissima e fresca. Un vero piacere immergersi. C'è chi ama tuffarsi dai vari "gradini" rocciosi, giocando a aumentarne l'altezza a ogni tuffo. Occorre stare però molto attenti, perché le rocce sono spesso bagnate e scivolose. Un altro accorgimento necessario è tenervi lontano dalla cascata, che genera una discreta forza e una corrente notevole. Per il resto, il bagno in questa valle isolata, nei laghetti circondati dalla vegetazione, sarà una sensazione impagabile. Benessere allo stato puro. Contatto ravvicinato con la natura più incontaminata.

Qui l'acqua è ovunque. Padrona assoluta del fascino del luogo. Potente o mansueta, a seconda dei punti in cui scorre. Ma sempre presente.


E l'anima di Cava Grande non può che essere la sua acqua. La magia dell'acqua. Nel vero senso della parola: il corso del fiume qui sembra animato da presenze misteriose. La sensazione è quella di un spirito che ci osservi, che nuoti insieme a noi, che abiti il luogo. La spirito dell'acqua. O forse delle ninfette che la abitano. Qui ritornano alla mente, intatte, le favole della nostra infanzia. Qui prende vita tutta la mitologia che abbiamo studiato a scuola. Le Naiadi (ninfe delle acque sorgenti), le Potamidi (ninfe dei fiumi), le Limniadi (ninfe dei laghi), paiono tutte abitare la Cava. 
O forse, più semplicemente, sono le suggestioni dell'uomo che sente la presenza e le storie di altri uomini, frequentatori di questo luogo nel tempo (Cava Grande venne abitata da insediamenti umani fin dal secolo XI a.C.). Un luogo carico di emozioni positive, perché da sempre teatro di racconti, di storie. Di vita.
Scrive Angelo Fortuna, in "Accadde a Cava Grande", Armando Siciliano Editore, 2007, Messina:
"Spinto da forza ignota, proseguii senza apparente meta finché non mi ritrovai sul ciglio di Cava Grande, custode dei millenni che rivivono perennemente negli echi misteriosi che, dal fondo della valle, si espandono lungo l'immane frattura e risalgono fino alla coscienza dei visitatori".
E ancora:
"In fondo, il fiume, che forma qua e là laghetti d'incomparabile bellezza, mormorava cattivanti storie del passato: numerose generazioni di uomini narravano la loro avventura terrena in questa silente immensità.
Mute spettatrici, impregnate delle impronte delle civiltà sepolte, le stratificazioni rocciose si animavano di ricordi..." 

Chiamatele ninfe, chiamateli ricordi oppure suggestioni, quello che è certo è che lo spirito della Cava sarà attorno a voi. Rintracciatelo nei gorgoglii delle cascatelle, nell'incrocio tra due rivoli d'acqua, nelle immagini sfocate che la luce disegna sul fondo dei laghetti... ovunque voi lo vogliate riconoscere, esso c'è.
Cava Grande non è solo bella: ha qualcosa di più. Qualcosa di misterioso che solo le anime più sensibili sapranno riconoscere. Qui l'acqua è viva, è animata. 
E solo se saprete sentirla, la vita dell'acqua, amerete questo luogo, fuori dai soliti itinerari turistici, non solo per la sua straordinaria bellezza, ma per quello che veramente è: un luogo magico.